Ottavio Bottecchia

I 100 ANNI DALLA VITTORIA BOTTECCHIA

Bottecchia celebra la sua storia 

20 Luglio 1924 – L’ EPICA VITTORIA

In questa storica data, al Parc des Princes, Ottavio Bottecchia arriva primo, sia in ordine di arrivo di tappa che di classifica generale, con 35’ e 36’’ di vantaggio. Quel giorno, il carrettiere veneto mette a segno una delle più epiche vittorie della storia del ciclismo.

E’ il primo Italiano a vincere il Tour de France ed è il primo a farlo indossando la maglia gialla dalla prima all’ultima tappa.

L’anno consecutivo Ottavio ripete l’impresa e vince di nuovo, consacrandosi a leggenda

2024 – IL CENTENARIO

A Cento anni dalla vittoria, Bottecchia Cicli continua a celebrare e a tenere vivo il ricordo di questo campione attraverso le biciclette che portano il suo nome. In particolare, la linea Reparto Corse è dedicata ai prodotti di alto livello destinati alle competizioni a livello professionistico.

Ottavio Bottecchia è un mito e le sue gesta eroiche continuano ad alimentare i sogni degli sportivi di tutto il mondo.
Competizione, resilienza, sacrificio e passione sono i tratti distintivi che accomunano Bottecchia Cicli e la storia di Ottavio.

Una storia fatta di grandi conquiste ma anche di tanta dedizione e impegno.

IL LOGO CELEBRATIVO

Bottecchia Cicli festeggia questa importante ricorrenza con il logo “Centenario Bottecchia” dedicato all’anniversario dei 100 anni dalla prima vittoria italiana al Tour, un importante primato italiano, destinato a restare per sempre impresso nella storia del ciclismo.

Il logo pone al centro “100 years”, la longevità di una storia che continua ad vivere nel tempo. Attorno, una corona d’alloro di colore giallo (che rimanda al Tour de France), la stessa che cingeva la fronte dei vincitori delle celebrazione atletiche del passato. 
Sopra, a coronare il tutto, svetta la grande aquila di Bottecchia Cicli, che vola alta, superando i confini del tempo e dello spazio.
Attorno, la frase “First Italian victory at Tour de France – 1924 – 2024 Anniversary” chiude il cerchio che raccoglie tutti gli elementi iconici del logo Centenario Bottecchia.

Scopri di più sulla storia di Ottavio e di Bottecchia Cicli.

https://www.bottecchia.com/pages/storia

English translate

Bottecchia celebrates its history

20 July 1924 – THE EPIC VICTORY

On this historic date, at the Parc des Princes, Ottavio Bottecchia came first, both in order of stage arrival and in the general classification, with a 35′ and 36” lead. That day, the Venetian carter scored one of the most epic victories in the history of cycling.

He is the first Italian to win the Tour de France and the first to do so wearing the yellow jersey from the first to the last stage.

The following year Ottavio repeats the feat and wins again, becoming a legend.

2024 THE CENTENARY

One hundred years after the victory, Bottecchia Cicli continues to celebrate and keep alive the memory of this champion through the bicycles that bear his name. In particular, the Reparto Corse line is dedicated to high-level products intended for professional level competitions.

Ottavio Bottecchia is a legend and his heroic deeds continue to fuel the dreams of athletes all over the world.
Competition, resilience, sacrifice and passion are the distinctive traits that Bottecchia Cicli and the story of Ottavio have in common.

A story made of great achievements but also of a lot of dedication and commitment.

THE CELEBRATORY LOGO

Bottecchia Cicli celebrates this important anniversary with the “Bottecchia Centenary” logo dedicated to the 100th anniversary of the first Italian victory at the Tour, an important Italian record, destined to remain forever imprinted in the history of cycling.

The logo focuses on “100 years”, the longevity of a story that continues to live over time. Around it, a yellow laurel wreath (which refers to the Tour de France), the same one that encircled the foreheads of the winners of the athletic celebrations of the past.
Above, to crown it all, stands the great eagle by Bottecchia Cicli, which flies high, exceeding the boundaries of time and space.
Around it, the phrase “First Italian victory at Tour de France – 1924 – 2024 Anniversary” closes the circle that brings together all the iconic elements of the Centenario Bottecchia logo.

Find out more about the history of Ottavio and Bottecchia Cicli.

https://www.bottecchia.com/pages/storia

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università degli Studi di L’Aquila, membro della Fondazione Michele Scarponi Onlus, ideologo e membro del movimento ambientalista Ultima Generazione A22 Network per contrastare il Riscaldamento Globale indotto artificialmente

OTTAVIO BOTTECCHIA SAN MARTINO DI COLLE UMBERTO (TV) 1 AGOSTO 1894 – GEMONA DEL FRIULI 15 GIUGNO 1927

OTTAVIO BOTTECCHIA (AUTOMOTO-HUTCHINSON)
OTTAVIO BOTTECCHIA IN SELLA ALLA SUA BICICLETTA NEL SUO VENETO

OTTAVIO BOTTECCHIA: LA STORIA DI UN CAMPIONE. 17 GIUGNO 2017 PEDALATA COMMEMORATIVA SULLE STRADE DEL MITO.

OTTAVIO BOTTECCHIA IN MAGLIA GIALLA AL COL DE L’IZOARD TOUR DE FRANCE 1924

1927 – 2017. Ricorre quest’anno l’anniversario della morte del grande campione Ottavio Bottecchia, avvenuta il 15 giugno 1927 a Gemona del Friuli, in provincia di Udine, in un contesto sul quale aleggia ancora il mistero.

Il 3 giugno 1927 uno strano incidente, causato probabilmente da un malessere, colpì il 33enne Ottavio mentre percorreva le familiari strade dove era solito allenarsi ed ancora oggi non si hanno certezze a riguardo. Quel che è certo è che quel giorno si spense un grande campione.  Ma l’uomo che aveva fatto tremare i più grandi campioni del ciclismo europeo, l’ex bersagliere ciclista che durante la Prima Guerra Mondiale si era meritato una medaglia al valore, era davvero morto per un malore?

Quel 3 di giugno del 1927, quando Ottavio uscì per il suo ultimo allenamento, era un giorno “senza”. Senza compagni di allenamento (non era riuscito a coinvolgere nell’uscita il fedele Alfonso Piccin). Senza una grande voglia di inerpicarsi sulle rampe del Clauzetto per poi scendere a Campei e svoltare per Cornino, sotto il sole impossibile di giugno. E anche senza le usuali otto uova con il marsala che la compagna Elena gli preparava, perché il campione in quelle settimane non si sentiva granché bene.

Quel 3 di giugno del 1927 era un giorno senza troppe cose. Quel giorno ‘senza’, come lo definisce il mitico giornalista di sport Gianni Mura, Bottecchia e la sua bella bici Automoto si incontrarono con la Morte.

Quel 3 di giugno del 1927 svanisce in un attimo il suo sogno di allora: correre l’ anno successivo il Giro di Italia per far vedere ai vari Girardengo, Binda, Brunero, Aymo… chi era il più forte degli italiani.

Quel 3 di giugno del 1927, sulla stradina a quel tempo bianca che dal laghetto turchino di Cornino porta a Peonis, accompagnato dal lento ma incessante scendere delle acque friulane del Tagliamento, termina la giovane vita del grande “Botescià “  … ed inizia il mito.

OTTAVIO BOTTECCHIA CERIMONIA PREMIAZIONE PRIMO ITALIANO A VINCERE IL TOUR DE FRANCE NEL 1924

Aldilà dell’aspetto sportivo, che lo contraddistinse per la sua forza, la sua tenacia, la sua modestia, la sua intelligenza tattica e la sua onestà, Ottavio Bottecchia si caratterizzava in quanto figura di spiccata levatura umana e morale, fortemente attaccata ai valori della famiglia in un contesto di estrema povertà e autenticamente impegnata nella difesa della patria.  Fu personaggio tenace, libero nelle idee e forte nei sentimenti, esponente emblematico delle popolazioni veneto-friulane, pregne di valori autentici, fortemente provate dalla tragedia della prima guerra mondiale.

FOTO DI OTTAVIO BOTTECCHIA IN SELLA ALLA SUA BICICLETTA

ll gruppo Ruote Libere Ceggia vuole onorare la vita e le gesta di questo grande Campione con una giornata Memorial a lui dedicata  Sabato 17 Giugno 2017 con una uscita in bicicletta aperta a tutti ripercorrendo gli ultimi 60 chilometri circa di quel 3 giugno 1927 sulle strade friulane del Clauzetto, parco del Cornino ed arrivo al ceppo memoria sito nei pressi di Peonis.

Il ritrovo e la partenza sono previsti alle ore 8,30 a Lestans (PN), con arrivo al cippo in via Ottavio Bottecchia a Peonis .
Alle ore 10,00 seguirà breve cerimonia commemorativa alla presenza del nipote di Ottavio e del sindaco di Trasaghis.
Per informazioni chiamare
Gianangelo al numero 335 5788293
Francesco al numero 338 7644214

OTTAVIO BOTTECCHIA: LA STORIA DI UN CAMPIONE. 17 GIUGNO PEDALATA COMMEMORATIVA SULLE STRADE DEL MITO.

Ottavio non è stato soltanto il famoso campione del ciclismo, non solo l’instancabile lavoratore attaccato alla famiglia e alla sua terra, ma anche un coraggioso eroe della Grande Guerra.

Difficilmente nel ciclismo possiamo ritrovare un fenomeno simile a quello di Ottavio, che in soli tre anni è riuscito a strabiliare le folle e stravolgere il mondo del ciclismo. Ma dietro alla favola popolare di Ottavio, c’è un grande uomo. Il carrettiere-muratore che allo scoppio della guerra accettò il suo destino senza lamenti, e fu arruolato tra i ranghi dell’esercito.

Bottecchia non è stato solo il famoso campione acclamato dalle folle del suo tempo, ma anche un eroe della Grande Guerra.  Dopo il breve addestramento nel 6° Bersaglieri di Bologna, Ottavio fu mandato in Trentino con alpini e fanti. Fece parte del corpo speciale degli “esploratori d’assalto”, equipaggiato di biciclette pieghevoli.

Il fucile gli servì indubbiamente, ma ciò che gli salvò la vita fu il suo “cavallo d’acciaio”. Aveva la temerarietà tipica di chi aveva vissuto nella povertà e quando saliva in sella diventava ancora più intrepido.

Con calma e ardimento sotto il violento fuoco nemico aggiustava tiri efficacissimi e falcianti con la propria mitragliatrice, arrecando gravi perdite all’avversario e fermandone l’avanzata. Costretto più volte ad arretrare, incurante del pericolo portava seco l’arma e tornava a postarla, aprendo fuoco sul nemico.

Lestans 4 Novembre 1917

Queste azioni di guerra fecero conferire al caporale Ottavio Bottecchia la medaglia di bronzo al valor militare.

Ottavio fu congedato il 15 Aprile 1919 dopo quasi cinque anni di duri combattimenti per la sopravvivenza. Fu a questo punto che iniziò l’attività sportiva di quello che poi divenne il mito Bottecchia.


Fonte: G. V. Fantuz, Ottavio Bottecchia La leggenda di Botescià.

IL CALVARIO DEL TOUR DE FRANCE

SESTA TAPPA – TOUR DE FRANCE 1924.

PERCORSO: Bayonne – Luchon

CORSA IL: 2 Luglio 1924

LUNGHEZZA: 326 KM

MEDIA: 21.159 KM/H

Alavoine sta accumulando sfortune su sfortune e Mottiat ha perso il sorriso. Quello che chiamano “il Calvario del Tour de France” ha avuto inizio questa mattina alle dieci e cinque presso le Eaux-Bonnes: gli ottanta sopravvissuti stavano per valicare i Pirenei in bicicletta.

OTTAVIO BOTTECCHIA SI FERMA A RIPARARE UNA GOMMA BUCATA DELLA SUA BICICLETTA, TOUR DE FRANCE 1924

Mottiat non ride più. Tiberghien non solo non guarda più i boschi, ma li urta. All’ingresso del colle, Alavoine è giallo e non perchè ha strappato la maglia a Bottecchia. E’ giallo per una colica. La fatica sta dando loro il colpo di grazia: procedono tutti lentamente, ma a testa bassa, come il bue che si appresta a ricevere l’ultimo colpo dal macellaio. I muscoli delle cosce sono tesi, Jacquinot avanza, digrignando i denti, come se chiedesse aiuto alla sua mascella.

Filano a sessanta chilometri all’ora e se non ci sono cadaveri è solo perchè gli strampiombi li hanno accolti sul loro fondo. Attaccano il Tourmalet con i movimenti di chi sta per scagliarsi con la testa contro un muro.  Un uomo dalle gambe sfinite si è sdraiato sul bordo erboso della strada. Il Tourmalet è un colle cattivo: lungo il suo cammino allinea gli sconfitti. Uno stradista piange, con i piedi in un piccolo torrente.

Un chilometro più in alto, ecco la statua della disperazione. Sono quelli per cui il Tour de France è come un bambino per cui non si può più fare niente, ma che ci si ostina a  non abbandonare. Ciò nonostante un uomo si è salvato: è Bottecchia, la maglia gialla. E’ talmente in alto che nessuno sa dove sia. E’ un’ora che gli stiamo dando la caccia alla velocità di cinquantacinque chilometri all’ora. Passando, guardo di quando in quando nei burroni, ma non è nemmeno lì.

E’ stato dopo il Tourmalet: non mi davo fretta, pensando che il colle d’Aspin avrebbe avuto ragione delle sue cosce. Ma appena un pò più in là intravedo qualcosa che avanza: è il naso di Bottecchia. E siccome dietro quel naso segue tutto il resto di Bottecchia, ho finalmente acciuffato il corridore. Avanza a falcate preciso come il bilancere di un pendolo: sembra l’unico che non faccia sforzi superiori alle sue possibilità. Ha sedici minuti sul secondo classificato. Ma oggi non canta.

Le Petit Parisien, 3 Luglio 1924

IL CASO OTTAVIO BOTTECCHIA

GIALLO SUI PEDALI

1927. Giugno è iniziato da poco e la campagna è ancora tiepida, le sementi germogliano indisturbate dall’arsura mentre la terra trattiene gli odori dell’estate in procinto di arrivare, risvegliata dal sole. Lorenzo Santolo sbircia oltre la tenda della cucina il campo in rigoglio che lo attende per il lavoro della giornata, al suo occhio attento non sfugge nessun centimetro della proprietà: subito lo insospettisce una macchia scura sul confine. Aguzza la vista per essere certo di non ingannarsi, ma alla seconda occhiata appare chiaro che quella sporgenza in lontananza non è frutto di uno strano gioco di luce.

Dapprima pensa ad un animale, si era illuso di essersi appena liberato dalle volpi ed ecco che invece già deve ricredersi, per questo esce imbracciando il fucile pronto a scacciare con uno sparo una belva restia all’idea di abbandonare il bottino. Man mano che i suoi passi scricchiolano sul terreno il sospetto lascia strada ad una nuova serie di ipotesi, il suo atteggiamento muta da insolente a guardingo temendo l’attacco di un cinghiale. A sventare la paura del cinghiale è un brillio che scintilla in lontananza, Lorenzo Santolo impiega un momento a mettere a fuoco la fonte di quel riverbero metallico, poi, intravedendo la sagoma per intero, capisce: una bicicletta.

Ripone il fucile sulla spalla e si avvicina più sfrontato, masticando insulti nel suo dialetto campagnolo. Avrebbe dovuto aspettarselo, l’ennesimo furfante che crede di fregarlo rubando i frutti più succosi. A pochi passi dalla bicicletta deve arrestarsi soffocando in gola un urlo d’orrore perché tutt’attorno la terra è imbevuta di sangue, troppo sangue, e lui così tanto non ne ha mai visto neppure sgozzando un animale. Assalito da una scossa fulminea di adrenalina e con il cuore stretto da un altrettanto improvvisa morsa di pietà, si inginocchia precipitosamente verso quello che doveva essere stato un uomo, ma che ora a malapena si distingue da un grumo intricato dal colore rugginoso.

Il volto è irriconoscibile, sangue dappertutto: sulle orecchie, sugli occhi, cola lungo il mento. Non ci vuole molto per capire che tutto quel sangue sgorga abbondante da una terribile ferita alla testa. Lorenzo Santolo non ha un attimo d’esitazione udendo i rantoli, non si tratta di un moribondo ma di un uomo vivo, agonizzante, ogni suo respiro ansante risuona come una richiesta d’aiuto. Lo carica sulle spalle, proprio come aveva fatto poco prima con il fucile, dopotutto le sue sono spalle forti abituate a carichi ben più pesanti di questo povero diavolo, neanche molto alto se proporzionato a lui, che trova perfino la forza di aggrapparsi quando avverte il conforto di un sostegno.

Quello che Lorenzo Santolo non sa è che quel povero diavolo ha un nome, ma non un nome qualsiasi. E la bicicletta, abbandonata sul confine del campo come un cadavere inerte, vale una fortuna: le sue ruote hanno percorso strade che lui non riesce nemmeno a immaginare. La bicicletta rimane là, sotto un sole inclemente, nella posizione contorta di uno scheletro disfatto, mentre il suo proprietario lotta fra la vita e la morte all’Ospedale di Gemona. Quella bicicletta è come un arto amputato, un’arteria che pulsa fuori dal corpo, rammaricandosi di non poter combattere anche l’ultima battaglia con il suo corridore. Senza bicicletta non può vincere, è chiaro: al traguardo Ottavio Bottecchia era arrivato sempre sulle due ruote e sempre là l’avevano trovato in sella mentre sorrideva ammiccante ingoiando la sua fatica.

Lorenzo Santolo conosce il nome, ma fatica ad associarlo a quel volto. Bottecchia è il ciclista, l’eroe di un’Italia in guerra, il figlio adottivo della Francia che gli ha storpiato il cognome. Che c’entra Botescià con questo piccolo uomo inerte, ritrovato agonizzante nella sperduta Peonis, sulla riva del Tagliamento? Come può quel vincitore senza macchia e senza paura esalare respiri sempre più lievi in una stanza dalle pareti bianche, sempre più prossimo alla sua sconfitta?

Il segreto in un tuorlo d’uovo

Lorenzo Santolo non era stato il primo a trovarsi di fronte Ottavio Bottecchia senza capire che si trattasse proprio del mito Bottecchia, osannato trionfatore sui pedali; Bruno Roghi, uno dei maestri del giornalismo del tempo, cadde nello stesso equivoco. Allora Bottecchia era un corridore ancora sconosciuto, a dargli lustro era stata la sconfitta che aveva fatto patire ai colleghi più illustri. Roghi, quando se lo trovò di fronte, convenne nel dire che era un povero diavolo, figlio della guerra con quei pantaloni lisi e la bisaccia a tracolla. «Il nome era pomposo come quello di un imperatore romano,» osservò Roghi nel suo articolo «ma il cognome rovinava tutto. Come si fa a scalare l’Olimpo e chiamarsi Bottecchia?» Senza la bicicletta Ottavio aveva ben poco dell’eroe: diceva lo stretto necessario, rigorosamente in dialetto veneto, sul suo viso ossuto brillavano due occhi sospettosi che raccontavano esperienze inenarrabili: fatiche e dolori patiti alla guerra e fame, tanta.

Nel 1922 si era da poco affermato fra i migliori tentando un’impresa senza precedenti: uscì vittorioso dalla traversata del Passo del Turchino superando una salita ripidissima e non sterrata che altri, come sostenne Roghi, non avevano ancora addomesticato. Ottavio di gare locali ne aveva vinte molte, era sempre nel gruppo di testa, ma per farsi notare serviva un’occasione unica, una fatica compiuta da lui solo. «Il segreto,» voleva sapere Roghi «per riuscire in un’impresa simile qual è?» La risposta di Bottecchia giunse innocente nella sua semplicità: «Uova fresche in quantità prima di una gara. Poiché non ho mai corso utilizzando prodotti eccitanti o stupefacenti. Ho invece molto sofferto, nel corpo e soprattutto agli occhi a causa della polvere

Non fece molta impressione alla stampa questo contadino della Marchigiana, classe 1894, che prima di partire diceva agli avversari: «A vae mi!» (vado io) quasi per scusarsi prima di conquistare la vittoria. Mangiatore di polenta, contadino abituato alla fatica, l’articolo di Bruno Roghi lo presentava al mondo come un ometto timido senza infamia e senza gloria. Ma la gloria venne e allora non ce ne fu più per nessuno.

Il campione di Francia

Dopo essersi guadagnato la quinta posizione al Giro d’Italia, venne reclutato per il Tour de France e accettò, il motivo del sì lo scandì bene in dialetto: «Cussì i pol magnar calcossa.» Non per fama, dunque, ma per fame. Era tornato dalla Grande Guerra decorato da una medaglia di bronzo all’onore che tuttavia non era stata sufficiente a salvarlo dalla miseria di una terra laboriosa, in lenta rinascita, che portava ancora su di sé i segni delle ferite appena inferte. Il patron del Tour, Henri Desgrange, conosciuto da tutti con il soprannome di Sanguinario per la spietatezza con cui sceglieva i percorsi, lo affidò come gregario ai fratelli Pélissier.

Ottavio non temeva i sentieri arrischiati, resi quasi impraticabili dalle pietre aguzze e dalla neve solidificatosi nel ghiaccio. Incantò i francesi sulla salita pirenaica dell’Aubisque e si attirò le cocenti invidie degli altri corridori che si accordarono in sordina a suo discapito. La vittoria gli fu strappata sulla vetta dell’Izoard, a un passo dal titolo finale del Tour, così Bottecchia non ottenne la fama che le sue fatiche avrebbero meritato, ma in compenso una cospicua somma di lire lo risarcì come ben si addiceva al suo senso pratico. Probabilmente guadagnò più di quanto avesse anche solo immaginato con l’intenzione di partecipare al Tour.

L’anno dopo il suo nome capeggiava su tutti i giornali con una lieve storpiatura: era Botescià, la Francia adottava quel figlio che l’Italia non aveva saputo amare abbastanza. Ottavio aveva indossato la maglia gialla la prima tappa del Tour e non l’aveva tolta fino all’arrivo a Parigi: campione indiscusso di una battaglia solo sua. Fu il primo italiano nella storia a vincere il Tour de France. Aveva proseguito per la sua strada, ignorando le lettere anonime che lo minacciavano per indurlo a non procedere fino in fondo. Un trionfo che si replicò perfino l’anno dopo, nel 1925, aprendogli le porte della leggenda: per la gente di Francia non era più un semplice contadino, ma l’eroe. Eroe lo era stato anche in guerra, ma l’Italia se ne era dimenticata presto, ritenendo una medaglia di bronzo l’unico onore dovuto.

Lui, però, non tradì la sua terra: coltivando amorevolmente i suoi vigneti nella borgata di San Martino, rese omaggio alle colline che l’avevano visto crescere e scorrazzare lungo i pendii con la bicicletta rubata al fratello Giovanni. Lui che bambino non era stato mai, figlio di un Paese in guerra, chiamato troppo presto a guadagnarsi il pane perché il tempo del gioco era tempo sottratto al lavoro, un lusso che potevano concedersi in pochi. Fin dalla più tenera età era stato iniziato ai mestieri di fatica: garzone nell’officina di un ciabattino, manovale edile, calzolaio. Con i soldi vinti al Tour poté concedersi lo sfizio di una casa sua, dimenticando le angosce dei genitori costretti ad ipotecare la proprietà per sopravvivere alla miseria. La costruì fra quei sentieri che raccontavano tutta la sua vita e aprì una ditta di biciclette, il mezzo che l’aveva traghettato attraverso le scosse della guerra, per non dimenticare di essere stato parte di quella schiera informe e grigia di soldati che marciavano incontro alla morte sognando la vita.

Il bersagliere di guerra

L’aveva vissuta tutta sulla sua pelle la Grande Guerra, dall’inizio alla fine: l’Altopiano di Asiago, il Carso, la trincea sul Piave. Fu catturato due volte dagli austroungarici e due volte riuscì a fuggire, a gambe levate, schivando i proiettili dei cecchini austriaci che lo sfioravano come scintille di fuoco. Una morte intravista e sempre scampata a bordo di una bicicletta, in qualità di bersagliere ciclista su e giù per le montagne portando sul dorso una mitragliatrice per fornire l’arma ad un posto di vedetta che ne era privo. Una volta era arrivato appena in tempo: spingendosi fra passaggi ripidi e mulattiere riuscì a consegnare la mitragliatrice pochi attimi prima di un attacco austriaco. Quell’arma fu la salvezza degli italiani colti di sorpresa dall’assalto nemico e mai come in quel momento Bottecchia vide il suo intervento tanto necessario.

Poi ci fu lo scontro in prima linea, il 4 novembre 1917, in cui Ottavio, costretto dalle circostanze, impugnò la mitragliatrice con le sue stesse mani facendo fuoco contro gli austriaci, ma valse a poco: venne di nuovo catturato, per un solo giorno, perché riuscì a darsi alla fuga. Quanto furono lunghi quegli anni di guerra, dilatati dai quattro mesi trascorsi in ospedale lottando contro la malaria che minacciava di portarselo via.

Ottavio con la sorte ci aveva giocato a carte tutti i giorni, trionfando perfino quando ormai tutti lo davano per spacciato e poi la morte, meschina, lo colpì alle spalle su una strada di campagna mentre correva sulla sella della sua bicicletta. Atterrato così senza un lamento, Ottavio, a soli trentatré anni di una vita che si prospettava ancora lunga. Chiuso per tredici giorni fra le pareti di una stanza ad attendere un verdetto che tardava ad arrivare, poi la nebbia senza ritorno lo avvolse senza scampo il 16 giugno 1927. «Frattura della volta e della base della scatola cranica,» si leggeva sul referto, e questo doveva bastare come spiegazione di una morte che di chiaro non aveva nulla fuorché l’evidenza che il morto c’era e la bicicletta, abbandonata al margine del campo, era scomparsa inghiottita dallo stesso buio in cui si era smarrito il suo proprietario.

Il mistero irrisolto

Per un certo periodo la cronaca non si diede pace, troppo clamore aveva suscitato la morte improvvisa di un personaggio di tale calibro. Si parlò di omicidio per qualche tempo, poi le voci si affievolirono fino a spegnersi come un mozzicone di sigaretta. Vennero avanzate tre ipotesi sul delitto di Ottavio Bottecchia prima che tutti decidessero che fosse più conveniente parlare di morte accidentale: un colpo di caldo, questo è stato, e la gente preferì arrendersi ad un destino infame piuttosto che inventarsi nuovi colpevoli.

Si mormorava che Bottecchia fosse stato ucciso perché si opponeva al fascismo, proprio come il fratello Giovanni, che giusto pochi mesi prima era stato investito tragicamente mentre tornava verso casa a bordo della sua bicicletta. I meno benevoli ipotizzarono il coinvolgimento dei due fratelli in un circolo di scommesse clandestine, un qualche losco affare in sospeso con la malavita. Altri sostennero, invece, che Bottecchia conoscesse il nome dell’assassino del fratello, motivo per cui gli sopravvisse per poco tempo. A squarciare la fitta rete di enigmi e dubbi sempre più cupi ci pensò anni dopo la testimonianza del vecchio parroco del paese che, morente, osò confessare con l’ultimo respiro la verità: Bottecchia era contrario al fascismo, per questo fu ucciso. Neppure la luce della parola consacrata fu sufficiente ad avviare un’indagine. A breve distanza, casualmente, un contadino confessò di aver ucciso Bottecchia a bastonate perché derubato dell’uva cresciuta nel suo campo; un movente davvero precario se si considera che nel mese di giugno nessun grappolo ondeggia dalle viti, non è la stagione dell’uva.

Troppe contraddizioni, dunque, un inestricabile groviglio di verità sovrapposte tanto diverse da essere giudicate tutte false. Bottecchia morì in seguito a un malore dovuto al troppo caldo, questo il verdetto finale, tuonò inappellabile e non trovò oppositori perché dopo anni faceva comodo a tutti credere che fosse andata così. Un’altra guerra bussava alle porte, venti avversi avvolgevano con le loro spire gelide il panorama mondiale: all’improvviso sembrava una perdita di tempo sprecare tanto fiato per la morte di un solo uomo.

Alice Figini

OTTAVIO BOTTECCHIA, LA SUA MORTE E’ ANCORA UN GIALLO

Ottavio Bottecchia è stato il primo italiano a vincere il Tour de France nel 1924, amato non solo dai tifosi italiani, ha incontrato la morte in una stradina tetra del Peonis di Trasaghis: trovato agonizzante, in uno stato pietoso con fratture al capo e ferite ovunque è poi spirato 12 giorni dopo all’ospedale di Gemona del Friuli. Ma la sua morte, ancora oggi non convince, non è stata una semplice caduta.

Vogliamo sapere la verita’ sulla morte di Ottavio Bottecchia” dice Ferruccio Bottecchia, lontano parente del campione morto il 15 giugno 1927 con la testa spaccata “frattura della volta e della base della scatola cranica”, dice il referto. Ma troppi elementi lasciano aperti dubbi inquietanti: il comandante dei carabinieri che aveva stilato il verbale è stato trasferito d’urgenza in Sardegna; il verbale stesso è sparito.
La prima versione alternativa alla caduta parlava di un pestaggio, meglio di una serie di bastonate inferte da un contadino a Bottecchia, sorpreso a rubare uva dalle coltivazioni. Peccato che a Giugno l’uva non sia matura, non è commestibile.
Ricordiamo che nelle prime corse a tappe i pestaggi dei corridori erano abitudini squallide ma persisteni: sia da parte di contadini o gente comune che non voleva che i corridori rubassero qualche frutto o altro per pedalare (non esistevano le ammiraglie), sia dai tifosi-amici di corridori importanti che si appostavano nottetempo (correvano quasi per tutto il giorno in tappe infinite) e picchiavano il fuggitivo malvisto.
Il caso Bottecchia avrebbe potuto diventare un documentario inchiesta di De Zan ma non si è poi fatto niente: forse la tremenda verità è nascosta davvero in quel libro che avvalorava l’ipotesi dell’omicidio politico; ipotesi confermata dal parroco di Peonis, don Dante Nigris, che sul letto di morte nel 1973 rivelò che Bottecchia era maldigerito dal regime per le sue idee antifasciste.

Povero Bottecchia eroe con la faccia spigolosa, un fuggitivo a pane e acqua e aiuti fatti in casa che aggrediva le stradine sterrate spaccagambe che fanno venire i brividi solo a guardarle in foto, massacrato e schiacciato come un insetto per i suoi pensieri di libertà.

LA STRUGGENTE STORIA DI OTTAVIO BOTTECCHIA, CICLISTA PER FAME

Correva l’anno 1923 ed il giornalista Borrella vagava indagante per la stazione di Bologna, alla ricerca d’un ciclista sentito poco nominare, ma di non molto prezzo come si usava dire allora (oggi si parlerebbe d’ingaggio), tale Ottavio Bottecchia (1894-1927), che gli riferivano essere bravo, tenace ed infaticabile. Il Borella era giunto lì, direttamente da Parigi, per trovare qualche sbrindellato ciclista italiano, di rincalzo, per il prossimo Tour de France, che bussava perentoriamente alle porte. Di Costante Girandergo, la cui fama infiammava i cugini d’Oltralpe, neanche a parlarne: impermittibile, costava troppo…

Ma, eccola su una panca anonima della stazione bolognese apparire la sua risposta, il suo uomo: un viso magro in eccesso con gli occhi, che s’incavavano bigi e, il naso aquilino, disegnato da cartilagini scarnificate. Bottecchia gli dedicò, da lontano, lo sguardo sfuggente e solitario, tipico di chi aveva patito fami ataviche ed inenarrabili. Aveva il biglietto rosso di terza classe infilato dietro l’orecchio, mangiava con dignità il suo pane e formaggio, ormai ridotto alla crosta. Nondimeno, a pochi passi dall’adorata bicicletta, c’era lì accanto, inseparabile, la bisaccia intatta del rifornimento corsa, reduce dall’ultima gara e mai consumata: tortelli di riso, mezzo pollo, marmellata, zucchero, ovvero i viveri di prescrizione. Quando, dopo averlo salutato, il giornalista Borrella gli chiese perchè non li mangiasse, lui replicò educato che quei viveri li avrebbe portati a casa sua, in Veneto, dai suoi cari…”Cussì i pol magnar calcossa”, scandendolo nei suoni meravigliosi della sua lingua. Bastarono quelle parole eloquenti ed incisive, per misurare il coraggio dell’uomo Bottecchia: lo reclutò.

Giunto in Francia, il patron del Tour, Desgrange, chiamato dai corridori il “nonno assassino” o “il sanguinario” per come sceglieva i percorsi, lo volle gregario dei fratelli Pèllisier. Invece “Botescià”, come lo osannavano i francesi, sorprese ed incantò tutti, ritrovandosi dopo solo due tappe la Maglia Gialla, aderente al suo torace longilineo, di coriacea tempra contadina. E, come narrano le cronache sportive dell’epoca estasiate di fronte a tanta bravura, sull’Aubisque, mostruosa ma celeste salita pirenaica, il nostro Ottavio avvertì tutti con il suo fare ingenuo ma infallibile, “A vae mi a vinzer”. Era un sentiero fracido di pietrisco e neve, ma il sole gli arroventava il cuore come una cantilena di casa e, l’erba circostante era lucida come quella delle sue pianure attorno al Piave: ebbene, sbaragliò tutti.

Ma, come si sa, i puri e gli umili di cuore, i veri buoni, hanno vita dura, anche se ricchi di talento, di fronte alle mille volpi, “braci coperte”, che gli correvano alle spalle, lontani, molto lontani, ma vicini, con il fiato dell’ invidia, pronto ad alitargli sul collo. Per evitargli di vincere il Tour, i corridori francesi si accordarono strategicamente, mentre Bottecchia correva per amor di corsa, senza molto pensare e, in autentica buonafede. Sulla vetta dell’Izoard, la posta in palio fu loro, così come il titolo finale del Tour. Tuttavia la “Gazzetta dello Sport” ripagò l’onore dell’epopea compiuta dal nostro Ottavio con una sottoscrizione, che gli rese, allora, la cifra di ben 61.725 lire. Al settimo cielo, Ottavio, carattere solido, ci si costruì un casetta ed imparò la lezione.

L’anno dopo, non ci fu gara nè storia per alcuno: Bottecchia si mise la maglia gialla alla prima tappa e non la levò fino a Parigi, incoronandosi campione. Senza badare ad una lettera anonima, tipica dei vili, che lo minacciava in tali termini:”Sei un fascista e la pagherai”. Ma nulla può spaventare il sicuro procedere degli umili di cuore, quando colgono la loro naturale rivincita. Ottavio non volle accattivarsi la simpatia e l’appoggio del regime fascista, cercando protezione e facendo la vittima; anzi, fiero e volitivo, non battè ciglio: non dimentichiamo che era stato bersagliere ciclista, sotto il fuoco nemico degli Austriaci, sull’impervio Carso. E, quando gli avevano rubato la sua amatissima bici, senza alcun timore, se l’era andata a riprendere nella trincea avversaria, da quelli che aveva apostrofato con un, “Buonanotte fioi de’ cani”, che gli facevano sputar sangue e fatica nel guerreggiare. Decorato durante la Grande Guerra, ma al ritorno, dopo il 1918, crucciato e divorato da perpetua fame che risolse e vinse solo correndo in bicicletta, tra territori sbranati dalla miseria più cruda e spietata, in quel Veneto laborioso che troppi oggi vorrebbero seppellire.

Non contento, dopo il trionfo del 1924, rivinse il Tour de France anche nel 1925. E nella ridente borgata di San Martino di Colle Umberto, tra spettacolari vigneti e dolci colline, dove era nato nel 1894, soddisfatto si vide finalmente tra mobili, acquistati con i suoi sacrifici e, tra numerosi polli che significavano prosperità ed abbondanza: disse con quella bonarietà, che possiedono solo gli animi schietti ed illuminati da Dio…”Son diventà sior, tosati…Sior de poter magnar!” Era un solitario, senza fantasie e grilli per la testa, il nostro Ottavio, che nascondeva dentro di sè, come tutti i timidi, l’animo del più indifeso ed insicuro degli atleti. Si crucciò, ma solo un poco, che le Case del Giro d’Italia gli preferissero Alfredo Binda e, quindi, di non riuscire ad ottenere titoli in patria: non sapeva covare rancori, come tutti i puri di cuore. E neppure la sua decadenza, nel quarto Giro di Francia a cui partecipava, lo impensierì più di tanto. Anzi, confessò tra sè e sè che al Tour, ogni volta, c’era troppo da pensare e da macchinare e, lui non era tagliato per i giochetti sporchi, sotto banco. Così tirò avanti nelle corse, compiaciuto di annotare sul suo bisunto quadernetto, supremo testimone delle sue ascese, date ed ingaggi.

Nel marzo del 1927, però, una caduta in allenamento gl’impedì la Milano-Sanremo; dubitò che, forse, a trentatrè anni, dopo fatiche sovrumane, potesse bastare. Invece riprese, da buon contadino testardo. Ma poi arrivò il telegramma funesto che annunciava la morte del carissimo fratello Giovanni, ardito durante la guerra, investito beffardamente proprio in bicicletta. Bottecchia si disse che non avrebbe mai più corso, sull’onda di un dolore lacerante. Stava finendo la primavera e, come in una commovente scena da romanzo, gli passò vicino a casa il Giro: si sentì rassicurato ed emozionato dai tanti educati “arrivederci” degli altri amici-corridori, che lo aspettavano a braccia aperte. Sarebbe tornato ad allenarsi, perchè certe volte il destino crudele viene a strapparci, anche nel nido più sicuro e protettivo della nostra casa: il tre giugno 1927 partì in bicicletta. Lo raccolsero agonizzante per strada in Friuli, vicino a Gemona: morì dodici giorni dopo, vaniloquente, in ospedale. “Il Sior del pedal el tasea par sempre, lu e la so putea bici”. Subito, la morte tremenda di Ottavio bastò per eccitare quello che dei vizi degl’italiani è il più ignobile e compiaciuto: il piacere del retroscena per cui c’è sempre qualcuno, che sa regolarmente, al pari di un testimone oculare, come sono andati veramente i fatti.

Così, da un parte, socialisti ed esuli reclamarono Bottecchia all’antifascismo, ricordandosi, che dopo la guerra era emigrato in Francia ed aveva frequentato circoli proletari: ne dedussero, secondo la loro personale lettura dei fatti, che la sua morte era un delitto. Per ripicca il regime fascista aprì un’inchiesta, con cui si riconfermò che si era trattato di uno scivolone. Ma venne poi, nella ridda delle ipotesi, la rivendicazione di un gruppo anarchico a far ridiscutere la questione, che tornò a complicarsi non poco. Poi ci fu un tale, emigrato dalla Sardegna in America, che accampò, sul letto di morte, la pretesa di sapere che la morte dei due fratelli Bottecchia, a poca distanza l’uno dall’altro, fosse stata decisa dalla mafia: si parlò di una vendetta per una corsa truccata ad Anversa, a cui i due fratelli non avrebbero obbedito.

All’improvviso arrivò, come uno squarcio nel cielo più nero, la brutale confessione sul letto di morte del vecchio contadino proprietario del campo, dove Bottecchia era finito con la bici vaniloquente: a ridurlo in fin di vita, sarebbe stata un mal dosata e violenta bastonata, con cui il contadino voleva punire, selvaggiamente, quell’uomo in pantaloni corti, che stava mangiando un grappolo della sua uva. Non è dato sapere se il contadino avesse riconosciuto in quel viso asciutto e magro il grande Bottecchia.

Oggi a noi è concesso solo di riflettere in silenzio e di commuoverci, se possediamo ancora un cuore di carne viva e non pietrificato dal cinismo, ricordando quel piccolo-grande Uomo, che lasciava le sue colline, spinto da una sete inestinguibile di vento e dai crampi di uno stomaco eroso dalla fame e, che morì, in una mattina afosa d’inizio giugno del 1927, assaporando gli acini “avvelenati” di un’Italia meschina, ingorda di vendetta e di possesso. Meditate gente, mi raccomando. A presto con nuove ed appassionanti storie del nostro splendido Veneto. Vostra Elena P.

LA MORTE MISTERIOSA DI UN CICLISTA DA LEGGENDA

I francesi, che amano ‘adottare’ i grandi campioni stranieri,  lo chiamavano “Botescia’, con l’accento sull’ultima, un po’ come si usava  con Fausto Coppi soprannominato “Fosto'”. Era un modo per far capire che nella forza di quei giganti c’era qualcosa della Francia, una bandierina di ‘grandeur’ che aggiungeva nobiltà ‎sia al Tour sia ai protagonisti.
Non erano tempi facili, neanche per andare in bicicletta. Adesso si gioca sui decimi di secondo, si vince al fotofinish. Un dettaglio fa la differenza.
Ma allora, quando Ottavio Bottecchia vinse due volte (1924 e ’25‎) il Tour de France, i distacchi erano enormi. Roba da far paura. Quarti d’ora come se piovesse, corridori che si perdevano cadendo nei fossi, forature a ripetizione. Che voleva dire fermarsi, rattoppare il buco e ripartire con una bicicletta pesante come un carico di piombo. Solo che su quei trabiccoli in tappe lunghe anche 400 km, il traguardo non arrivava mai.  
Diciamo che la selezione non era solo tecnica. Bisognava resistere al caldo e al freddo, alla fatica, alla solitudine. Se poi eri anche bravo a pedalare, ecco che allora  potevi  avere delle buone chances.
Ottavio Bottecchia queste buone chances le aveva. Eccome se le aveva! Era  un combattente nato: non a caso nella Grande Guerra era stato decorato con una medaglia di bronzo al valor militare. Faceva parte, ca va sans dire, del sesto battaglione dei bersaglieri ciclisti. 
Friulano doc, nato a San Martino di Colle Umberto il 1 agosto 1894, Bottecchia nella vita aveva fatto tutti quei mestieri dove bisogna far fatica (muratore, carrettiere, facchino) dall’alba al tramonto. Forse per quello, dopo una vita così, correre al Tour de France non poteva spaventarlo più di tanto.
“Peggio di una fucilata  dagli austriaci o di  dover costruire muri di una casa sotto il sole non può  ‎capitare…” diceva agli amici Botescia’ con un sorriso maligno. ” Se vinci una tappa 4 soldi   almeno te li porti a casa”.
E infatti. Pur avendo cominciato tardi (diventò ciclista professionista a 27 anni)‎, Bottecchia di Tour ne vince addirittura due, il primo nel 1924 indossando la maglia gialla dalla prima all’ultima tappa (record eguagliato solo da Jacques Anquetil) e la seconda l’anno successivo facendo di nuovo saltare il banco della Grande Boucle.
 L’ultima apparizione, come racconta Claudio Gregori nel suo ultimo libro (‘Il corno di Orlando, vita, morte e misteri di Ottavio Bottecchia, pp 532, editore 66th and 2nd), avviene nel 1926, ma il Grande Combattente , il nostro Orlando in bicicletta, comincia a patire le ruggini del tempo e soprattutto della fatica. Tradito anche dai suoi compagni, Bottecchia si ritira dopo una tappa flagellato dal maltempo.
E qui arriva il bello della storia. Se di bello si può parlare, visto che Ottavio Bottecchia, già l’anno successivo , nel 1927, muore dopo nove giorni di agonia all’ospedale di Gemona. Lo trovano  il 3 giugno  sulla strada tra Cornino e Peonis  due contadini che stavano lavorando.  È in uno stato pietoso, la testa fratturata, una clavicola rotta, la faccia una maschera di sangue.  La bici per terra, ma senza danni particolari. 
Bottecchia era da solo. Non avendo trovato compagni per uscire ad allenarsi insieme (il fedele  ‎gregario Alfonso Piccin gli aveva dato buca per andare a un appuntamento con la fidanzata), alla fine si è messo in marcia da solo. Sono le dieci di mattina, non fa neanche tanto caldo. Eppure Bottecchia è in fin di vita, tanto che gli danno l’estrema unzione e con un carretto lo portano all’ospedale di Gemona.
Ma come ha fatto, solo cadendo, a ridursi in quello stato? Anche Gregori, nella sua minuziosa ricostruzione, fa trasparire il suo scetticismo sull’ipotesi di un banale incidente.
Però il mistero s’infittisce. Le piste si moltiplicano.  Prima viene fuori un contadino che dice d’aver picchiato Bottecchia ‘perché  rubava l’uva, ipotesi poco probabile a giugno, quando l’uva è acerba. Poi viene fuori una questione di donne, una specie di vendetta finita nel sangue. Scartata anche questa. E poi l’agguato politico perché il vincitore di due Tour, secondo la rivelazione fatta dal parroco di Peonis, don Dante Nigris, pagò “il suo antifascismo”.
Un ginepraio in cui più si va a fondo più ci si perde e più aumenta il fascino di una storia dove il “Noir” si mischia con la leggenda. Va anche ricordato, che pochi giorni prima del‎l'”incidente”, anche il fratello di Bottecchia, Giovanni, era morto, investito da un’auto di un pezzo grosso del fascismo, addirittura testimone alle nozze di Mussolini.
Pare, ma il condizionale è d’obbligo, che Ottavio fosse andato da questo caporione per discutere il risarcimento per la morte di Giovanni. Ma i due non solo non si accordarono, ma si insultarono pure, cosa che non piacque al Capataz, poco incline a  farsi  mandare a quel paese da un ex muratore diventato ricco al Tour de France.
E qui non andiamo avanti, in questo giallo nel giallo, per non farvi perdere la bussola. Ci sarebbe da parlare anche di una assicurazione sulla vita, fatta da Bottecchia, che avrebbe spinto i familiari ad accettare come semplice “incidente sul lavoro “la morte del corridore. 
Ci sarebbero molte altre ipotesi e altri particolari, che preferiamo lasciarli raccontare  al collega Gregori, nostro compagno di strada di tanti Giri, Tour e classiche. 
È un bel libro, quello di Gregori, perché insieme a una massiccia raccolta  di ordini d’arrivo, classifiche documenti d’epoca mai raccolti prima, c’è anche lo Spirito del Tempo, quello di un mondo, tra due grandi guerre, che va sempre più veloce, anche pedalando,  verso il suo destino non sempre magnifico e progressivo. Un destino purtroppo anche  tragico, segnato da una nuova carneficina, ma anche ricchissimo di intuizioni di arte, cultura, scoperte scientifiche e “fughe” in avanti della Storia che ancora adesso ci accompagnano.

25/07/2017

https://www.raiplaysound.it/audio/2018/10/NUMERI-PRIMI-1439c684-b482-42d5-b236-f056ee62d5cd.html

OTTAVIO BOTTECCHIA, IL GIALLO DELL’UOMO IN GIALLO

Voleva rubare la frutta da un albero e il contadino l’ha preso a pietrate. No, sono stati i fascisti a fargliela pagare. Io invece vi dico che non ha rispettato i patti con la mafia delle scommesse… Nessuno ha capito come sia caduto dalla bicicletta Ottavio Bottecchia, il primo italiano a vincere il tour de France. Ora però è morto dopo dodici giorni di agonia e nessuno ancora ha capito cosa sia realmente successo…

https://www.foglieviaggi.cloud/blog/bottecchia-in-giallo-uomo-da-tour-e-uomo-da-sofferenza

BOTTECCHIA IN GIALLO, UOMO DA TOUR E UOMO DA SOFFERENZA

di GIANCARLO BROCCI*

Ho già scritto tanto di Tour e di Bartali; in vero anche di Ottavio Bottecchia, ma il Tour 2021 mi sembra d’obbligo celebrarlo con la storia speciale di un campione che fu tale solo lì, rigorosamente esclusivo, un ciclista eroico che riservò le sue imprese solo a quel gigantesco palcoscenico, alle strade dell’estate francese. 

Bottecchia, ai 29 anni, era arrivato solo alla categoria dei “professionisti juniores”, giusto per dare altro attributo agli isolati, ai diseredati, sfigati comunque. Si era da poco guadagnato un’attenzione del vecchio Ganna ed i consigli del primo vincitore del Giro gli erano serviti per mantenere un utile basso profilo tra Girardengo e Brunero, una neutralità nella lotta fra i big che gli aveva guadagnato la vittoria tra i suoi peones, i senza squadra. La fortuna virò quando Borella, inviato dal Tour per ingaggiare almeno un paio tra i recalcitranti italiani per la colossale corsa oltralpe, raccolse il rifiuto anche di Brunero, che Girardengo non ne voleva più sentire parlare dopo un timido approccio anteguerra. Il torinese Santhià, già esperto e dotato di buon francese e poi chi altri? Ottavio è un “lucky looser”, non gli par vero di sentire la proposta, l’idea de “i schei”, in Francia ha già lavorato duro da muratore.

OTTAVO BOTTECCHIA (AUTOMOTO-HUTCHINSON) PREMIAZIONE TOUR DE FRANCE 1924

Il 21 di giugno i due scendono dal treno a Parigi, ad accoglierli Fabio Orlandini, un fiorentino corrispondente Gazzetta, anche perché la Rosea ha deciso, per la prima volta, di non mandare nessuno a quel Tour: troppo sparuta la rappresentanza, senza quarti di nobiltà quei ronzini da tiro attempati. L’elegante Orlandini osserva curioso quel veneto ossuto: “Indossa giacca di cotone che gli cade sulle spalle e pantaloni stretti colore marrone che gli arrivano alla caviglia. In mano tiene stretta una valigetta di fibra colore giallino. Contiene un paio di scarpini e una maglia da ciclista, biancheria intima, una saponetta usata, una camicia a righe nere e gialle per le occasioni importanti e un impermeabile mai indossato prima… Glielo ha imposto la moglie per presentarsi bene”. Virgoletto Paolo Facchinetti, un maestro e un amico. Il direttore dell’ Automoto, Pierrard, conosce Santhià, che si atteggia ad esperto; di Bottecchia non riesce a pensare positivo. “Accidenti a Borella, ma dove mai ha scovato questo tizio qua? E Pelissier come fa a dire che costui è un corridore? Ingaggiamolo per tre tappe, non andrà più lontano, questo è certo”.

Saranno 3 Tour, invece; in quel 1923 solo secondo ma perché Henry Pelissier, beniamino di Francia tutta e suo capitano, deve finalmente vincere un Tour. Nei due successivi Bottecchia domina, scrive la storia. Lui, uomo speciale da fatica, formidabile mulo, tanto callo quanto muscolo, ha trovato il suo ciclismo, quello delle enormi distanze e delle grandi fatiche, del coraggio e del sacrificio estremo. È proprio in quel Tour 1924, dove Ottavio si veste di giallo alla prima tappa e lo porta a Parigi, che Albert Londres, appena tornato dalle colonie penali francesi in Sudamerica e inviato a quel ciclismo mai visto, titolerà “Tour de France, Tour de souffrance”.

E comunque quelli del Tour, per tanta bella gente, restano giorni di festa; per me di sicuro è così da sempre. La festa è ricominciata, ce n’era bisogno. 

*GIANCARLO BROCCI (Da Gaiole in Chianti. Cominciò a sentir parlare e leggere di ciclismo quando ancora Coppi inseguiva i suoi ultimi traguardi. Laureatosi in Medicina e Chirurgia, ha sempre fatto altro. Prima la politica, interrotta con il libro “Ridatemi il Pci” – estate ’88, prefazione di Michele Serra -. Poi lo sport, lottando contro i professionisti e il business che si stavano rubando ogni giocattolo. Ma è oggi soprattutto l’inventore de L’Eroica. Altri suoi libri: “Bartali, l’ultimo eroico” e “Bartali, mito oscurato”, “L’Eroica, storie, imprese e sogni sulle strade bianche”)

OTTAVIO BOTTECCHIA, I PIONIERI DEL CICLISMO ITALIANO #22

OTTAVIO BOTTECCHIA, TOUR DE FRANCE 1923

OTTAVIO BOTTECCHIA, TOUR DE FRANCE 1924

Original video of Tour de France 1925 – from LE ROIS DE LA PEDALE produced by Gaumont

Ottavio Bottecchia 13esima tappa Nizza Briancon Tour de France 1925

Ottavio Bottecchia climbs Col Izoard , Tour de France 1925 , 9th of July

Ricordo Ottavio Bottecchia

Origini del Tour de France e suoi primi vincitori sino ad Ottavio Bottecchia

Bottecchia, l’ultima pedalata

Col Izoard e Col Galibier sulle orme di Ottavio Bottecchia

Luciano Berruti racconta Ottavio Bottecchia

Beppe Conti parla di Ottavio Bottecchia : i Magnifici 7 del Tour de France

Gianni Mura parla di Ottavio Bottecchia

OTTAVIO BOTTECCHIA, ESTRATTO DA “LA STORIA IN GIALLO”

VISITA A MONUMENTO OTTAVIO BOTTECCHIA A PEONIS

Visita al Monumento dedicato ad Ottavio Bottecchia (Peonis, UD)

MONUMENTO A OTTAVIO BOTTECCHIA, TRASAGHIS (UD)
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La morte di Ottavio Bottecchia: malore o agguato fascista?

95 anni fa moriva trentaduenne il primo italiano vincitore del Tour de France

https://www.laregione.ch/sport/altri-sport/1589485/bottecchia-anni-ottavio-campione-morte

15 Giugno 2022

di Stefano Marelli

“Bottecchia è la rivelazione più sensazionale del Tour”, disse nel 1923 Henri Degrange, ideatore della Grande Boucle ed ex detentore del record dell’ora. “Povero, scuro, taciturno, questo virgulto d’una famiglia di prodi soldati – senza conoscere una parola del nostro idioma e senza aver mai visto una strada francese – ha dimostrato di essere un grande campione. Immaginatelo l’anno venturo, meglio preparato ad affrontare le incognite del percorso e più esperto dei nostri sistemi di gara, e vedrete ciò che saprà fare il generoso e leale bersagliere italiano”.

Al netto dell’enfatica retorica con cui Degrange omaggia l’alleato in una guerra mondiale vinta solo pochi anni prima, rimane il fiuto quasi infallibile con cui il direttore della corsa sapeva riconoscere i fuoriclasse. E a predirne il glorioso futuro.

Dodici mesi più tardi, infatti, Ottavio Bottecchia dominò il Tour: nessuno prima di lui l’aveva fatto vestendo la maglia gialla dal primo all’ultimo giorno. Era inoltre il primo italiano a vincere la corsa più prestigiosa al mondo, e l’anno seguente avrebbe concesso il bis. Era la metà dei ruggenti anni 20, il mondo pensava a divertirsi e la crisi di fine decennio non era ancora nemmeno lontanamente ipotizzabile. Era la Parigi travolgente di Picasso e Josephine Baker, del jazz, del charleston, di Gertrude Stein e della Festa Mobile di Ernest Hemingway. Ottavio Bottecchia rientra in Italia ogni volta più famoso, ma anche più ricco: grazie a una sottoscrizione promossa dalla Gazzetta dello sport, vengono raccolte e consegnate al campione ben 70mila lire, cioè il salario che un operaio metteva insieme in una decina d’anni. Quella di Bottecchia, classe 1894, pare dunque la classica storia di un povero che, grazie allo sport, trova riscatto ed eterna felicità dopo una gioventù di privazioni. Ma non sarà così.

Le origini

Ottavo – ça va sans dire – e ultimo figlio di un carrettiere veneto, svolge i lavori più umili finché a vent’anni viene arruolato e spedito sul Carso come caporale fra i bersaglieri ciclisti. A pedalare, però, deve ancora imparare, non essendo mai montato in sella in vita sua. Al fronte ne passa di tutti i colori: contrae la malaria, viene intossicato dal gas, per tre volte viene fatto prigioniero ma sempre riesce a fuggire. Congedato, rincasa con una medaglia di bronzo al valore militare e un travolgente amore per la bicicletta. Grazie ai mille lavori che si procura, mette insieme i soldi necessari ad acquistare una “macchina”, come si diceva allora, e inizia a correre fra i dilettanti, dove viene presto notato da un uomo di Luigi Ganna, colui che per primo aveva vinto il Giro d’Italia. Accetta l’offerta: a 27 anni diventa dunque professionista per la Ganna-Dunlop e subito si mette in mostra chiudendo 8° nel Lombardia, 9° alla Sanremo e 5° nella Corsa rosa. Abbastanza per indurre i francesi a ingaggiarlo per il Tour, dove sotto le insegne dell’Automoto fa sfracelli: porta la Maglia gialla per 6 tappe e chiude secondo nella generale, guadagnandosi le lodi di Degrange riportate a inizio pagina. Se cent’anni fa le corse erano dure, la Grande Boucle era durissima: partenze alle 2 del mattino, 10-12 ore di gara, tappe di oltre 400 km su bici di 28 kg e senza alcuna assistenza tecnica. Su Youtube si trovano spettacolari filmati d’epoca prodotti dalla Gaumont, andate a vederveli, ne vale la pena. Da quelle prove infernali, come detto, Ottavio esce trionfatore per due anni consecutivi e assurge a idolo delle folle. E così, sfruttando una fama ormai sconfinata, entra in società con Teodoro Carnielli e si mette a costruire ottime bici che portano il suo nome: le Bottecchia si vendono bene ancora oggi. La gente lo adora e vorrebbe che, dopo tanti prestigiosi successi all’estero, conquistasse finalmente anche il Giro d’Italia. Il campione promette solennemente che un giorno vi riuscirà, ma purtroppo non succederà mai.

La morte

Ottavio Bottecchia morirà infatti nel 1927, ancor prima di compiere 33 anni. Venne ritrovato agonizzante da un contadino il 3 giugno, ufficialmente colpito da malore occorsogli durante un allenamento che stava svolgendo, da solo, lungo una strada di campagna del Friuli. I dettagli di quell’incidente, però, non furono mai del tutto chiariti, e attorno alla morte del campione non si è mai smesso di avanzare le più svariate congetture e supposizioni. All’ospedale di Gemona, dove fu portato non certo celermente, gli vengono riscontrate diverse fratture craniche e alla clavicola destra. Si spegnerà il giorno 15, esattamente 95 anni fa, senza mai riuscire a riprendere del tutto conoscenza. La notizia della sua scomparsa tiene banco su tutti i giornali, ma al suo funerale, dove sono presenti i suoi più forti rivali stranieri, spicca l’assenza dei suoi colleghi italiani, come Binda, Belloni e Girardengo. C’è qualcosa che non va, iniziano a dire i più sospettosi.

La versione ufficiale, quella del malore, andava bene quasi a tutti. A cominciare dalla moglie, che la sostenne fino all’ultimo dei suoi giorni. I più maliziosi, però, fanno notare che ciò le tornava comodo: solo in caso di morte accidentale, infatti, avrebbe potuto incassare il cospicuo premio assicurativo sulla vita di Ottavio. Soldi che, pare, subito investì in case e terreni. Certo è che il referto medico parla di fratture non compatibili con una semplice caduta dalla bicicletta: quel tipo di fratture craniche fanno pensare piuttosto a una scarica di sonore bastonate. La bici di Bottecchia, fra l’altro, non aveva neanche un graffio: davvero strano, nel caso di un volo rovinoso. E così, si fa largo l’ipotesi della vendetta di un marito fatto becco o di un vignaiolo che, sorpreso Bottecchia a rubargli grappoli d’uva, lo avrebbe punito appunto a legnate. Si tratta di una versione poetica che venne sostenuta a lungo, benché facilmente smontabile: l’uva ai primi di giugno è ancora lontanissima dall’esser matura, e risulta dunque impensabile che qualcuno volesse nutrirsene.

Altre ipotesi

La pista più affascinante, e dunque la più battuta, è però quella del delitto politico, sostenuta fra l’altro già negli anni 40 anche dal famoso scrittore e giornalista francese Albert Londres. È in effetti documentato che, dopo il fattaccio, il comandante dei Carabinieri di Gemona fu immediatamente trasferito – in Sardegna, ovvio – e che il verbale che aveva redatto sul caso fu fatto sparire. Inoltre, diversi autori chinatisi sulla questione danno per certa la volontà delle autorità dell’epoca di scoraggiare ogni ulteriore indagine. Ad avvalorare questa tesi ci sarebbe una rivelazione in punto di morte, nel 1973, da parte del parroco che aveva dato al campione l’estrema unzione: Bottecchia, disse, fu vittima di un agguato politico per via del suo antifascismo. Ciò spiegherebbe fra l’altro l’assenza dei maggiori campioni italiani – dichiaratamente fedeli al regime – alle esequie di Ottavio. A tal proposito scrisse Gianni Mura: “Per i nostri, forse, Ottavio era un morto scomodo”. Strano fu anche il fatto che Bottecchia si stesse allenando da solo, dato che non lo faceva mai. Inspiegabilmente però quel giorno nessuno dei suoi compagni di pedale volle accompagnarlo. Il suo più fedele gregario Alfonso Piccin, al quale Ottavio aveva addirittura regalato una casa, si tirò indietro dicendo che doveva andare a trovare la morosa. Riccardo Zille accampò la scusa che doveva preparare le buste paga dei suoi operai, mentre Luigi Maniago aveva deciso all’ultimo momento d’imbiancare casa. Si sospetta in realtà che tutti e tre avessero paura di una rappresaglia fascista. Una decina di giorni prima dell’incidente occorso a Bottecchia, suo fratello fu infatti investito e ucciso, mentre pedalava, dall’auto di un grossissimo industriale della zona, molto compromesso col regime. Alla famiglia venne offerto un risarcimento in denaro, ma Ottavio rifiutò insultando il riccastro sulla pubblica piazza. I suoi amici dunque, temendo che presto sarebbe giunta la vendetta, non vollero farsi trovare in sua compagnia su una strada tanto isolata che pareva fatta apposta per tendere agguati.

Tutta la verità molto probabilmente non salterà mai fuori, e la morte di Ottavio Bottecchia, primo italiano vincitore del Tour, rimarrà per sempre avvolta almeno parzialmente nel mistero. Una manna per i diversi scrittori che, nel corso dei decenni, hanno deciso di occuparsene. Fra i testi più stuzzicanti c’è “Il corno di Orlando”, documentatissimo romanzo del 2017 del cronista sportivo Claudio Gregori, che ricostruisce magistralmente l’epoca e i protagonisti di quel ciclismo ancora pionieristico. Curioso è pure il giallo “La morte danza in salita. Ettore Schmitz e il caso Bottecchia”, firmato nel 2014 da Alessandro Mezzena Lona, che a indagare sulla morte misteriosa del campione mette nientemeno che Italo Svevo.

Fonte: La Regione

Ottavio Bottecchia, di ciclismo e morte, di nulla e tutto

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Il muratore veneto che, correndo per ‘schei’, si ritrovò a conquistare Tour de France e leggenda, per poi morire misteriosamente

“Prima di diventare un astro del ciclismo, Bottecchia era nulla. Chi dice che faceva il carrettiere, chi afferma facesse il muratore. Era, questo è certo, un uomo di campagna, un uomo di fatica, uno di quelli che hanno la vita grama, la vita dura. Era il tipo perfetto del nostro manovale o bracciante rurale. Carrettiere o muratore. Il suo destino era non diciamo il lavoro, ché tutti si lavora, ma la fatica”

IL NULLA CHE SI VESTÍ DI GIALLO

Era stato nulla, Ottavio Bottecchia. Scriveva così La Stampa il giorno dopo la sua prematura morte. Era stato nulla, un nulla colmo di sacrifici, di silenzioso e logorante lavoro, di orgogliosa e taciturna povertà. Era stato nulla nel nulla, allevato dagli stenti dell’anonima Marca Trevigiana dei primi del Novecento, segnato dai gas tossici e dall’insensibile endemia della Grande Guerra.

Parlava solo il veneto, Ottavio Bottecchia, con quel nome e quel cognome, misto di aristocrazia e volgo. Era stato chiamato così perché ottavo figlio di un ortolano. Proprio su quell’antitetico accostamento ragionò la penna di Bruno Roghi: “Il nome era pomposo come quello di un imperatore romano, ma il cognome rovinava tutto. Come si fa a scalare l’Olimpo e a chiamarsi Bottecchia?”.

Parlava solo in dialetto stretto, Ottavio Bottecchia, perché nella spoglia casa di San Martino di Colle Umberto non si poteva pensare alla lingua italiana. Le necessità erano altre. ‘Magnar’, a quello si pensava, a quel termine che avrebbe ripetuto allo sfinimento anche dopo la gloria, anche dopo i faraonici contratti firmati Oltralpe, anche dopo Tour e maglie Gialle. ‘Magnar’, un verbo carico di utopia e disillusione, di assenza e ossa sporgenti.

Tra le anonime rive del Meschio e le ingannevoli Prealpi Bellunesi aveva imparato il mestiere del sopravvivente, aveva imparato a far legna e trascinarla su pesanti carretti, ad immergere le flebili mani nella malta. “Il ciclismo è uno splendido mestiere, fra l’altro assai facile”, avrebbe detto a distanza di qualche anno, “Ho fatto il boscaiolo a dieci gradi sottozero, è molto più difficile che scalare il Tourmalet o il Galibier insieme”.

Venne chiamato alle armi non ancora ventenne, smistato sul Carso insieme a migliaia d’inermi coetanei. Il fato lo volle premiare, inserendolo all’interno del 6º reggimento bersaglieri, esploratori d’assalto, reparto ciclisti. A bordo della sua bici sfuggì per tre volte alla prigionia austriaca e guadagnò una Medaglia al Valore, non riuscì a sfuggire alla malaria, che miracolosamente gli risparmiò la vita.

Quelle pedalate, misto di trincee e diclorodietilsolfuro, funsero contemporaneamente da allenamento e prodromo della Grand Boucle. Sulle aspre strade militari, difatti, presero inconsciamente forma i tratti morfolofigici che avrebbero segnato i rapidi, monumentali successi sportivi del muratore veneto.

LA VIA CRUCIS CHIAMATA GRAND BOUCLE

“Maschera di fango secco e screpolato, ciglia bianche, labbra grigie, mani nere, polpacci scorticati, caviglie di cervo dai tendini scoperti”. Appariva così lo sconosciuto ‘Botesciá’ agli occhi del popolo francese. Era il 1923, erano trascorsi pochi anni e tante forature dall’incubo bellico. Bottecchia si ritrovava, quasi ventinovenne e quasi per caso, a correre il suo primo Tour de France.

Era stato segnalato dal giornalista-scout Aldo Borella alla corazzata Automotó: scuderia transalpina formata da soli cavalli da razza, su tutti i fratelli Francis ed Hénri Péllissier. Nonostante l’ottimo risultato conseguito nel precedente Giro d’Italia, dov’era arrivato primo tra i cosiddetti isolati, i senza squadra, era stato accolto con estrema diffidenza dal patron Monsieur Pierrand. Bottecchia non convinceva per la presenza scenica, per la poca predisposizione al dialogo, per il “vago odore di formaggio caprino” descritto da cronisti d’epoca.

Emaciato, con le spalle appuntite e lo sguardo tipico di chi preferiva la solitudine operosa alla fama inconsistente, aveva accettato il ruolo del gregario, svestendone presto i panni. Route dopo route conquistò la maglia Gialla, primo italiano della storia a riuscirci, e la mantenne per sei tappe, per poi concedere il primato al maggiore dei Pellissier, Hénri.

Quella via crucis ideata dal tiranno Henri Desgrange, 5386 chilometri suddivisi in 15 tappe di epopea e polvere, scatenò l’interesse collettivo nei confronti dell’inatteso eroe Bottecchia. Un eroe da chanson de geste, come lo definì Gianni Mura, capace di sprigionare intuito ed eleganza ad ogni salita, capace di conquistare nuvole e vette seguendo il fiuto del proprio naso aquilino.

Scrissero di lui in patria: “In questo atleta di popolo c’è una finezza di garbo che piace e che compie il suo ritratto di popolano poderoso instancabile, fattivo e di poche parole, incapace di esprimersi, ma tutt’altro che incapace di pensare e di volere, di organizzarsi silenziosamente e di riuscire. Quando sarà tornato in Italia e farà la sua apparizione sulle nostre piste, osservategli la caviglia, è di una meravigliosa finezza, quella stessa finezza non altrettanto visibile, ma altrettanto reale e naturalmente più profonda, Bottecchia l’ha sotto lo sguardo poco espressivo, nascosta nei più intimi congegni del cervello”.

A detta dello stesso Degrange, la pedalata di Bottecchia appariva regolare come il bilanciere di una pendola. Pareva non sforzarsi, quell’enigmatico veneto, pareva spingere la pesante, primitiva bicicletta, con la leggerezza della predestinazione.

Si prese i Tour del ’24 e del ’25, li monopolizzò, “comportandosi come un contadino astuto con la ragazza che vuole sposare, facendole una corte aspra e rude, dimenticando ogni cosa pur di conquistarla”. Nel ’24, addirittura, corse in maglia Gialla tutte le tappe, primo a domare così avidamente le mulattiere della Grand Boucle. “Perseverai, resistetti. Soprattutto volli”, disse dopo quelle vittorie.

Arrivarono gli ‘schei’, arrivò il ‘magnar’. Arrivò la Bottecchia Cicli, azienda che da un secolo continua a segnare l’immaginario ciclistico nostrano. Arrivò, soprattutto, il lampo del benessere, della preoccupazione che lascia spazio alla certezza, degli stenti che svaniscono di fronte alla meritata opulenza, del nulla metamorfizzato nel tutto. Un lampo subitaneo, destinato all’evanescenza della mortalità.

IL TUTTO, IL NULLA. LA MISTERIOSA MORTE DI BOTESCIÁ

‘Botescià’ convogliò nel Tour e nei lauti premi ad esso connessi ogni sua energia, snobbando intenzionalmente il meno redditizio Giro Rosa. In Francia trovò la propria terra promessa, eldorado dove monetizzare ogni fatica. In Italia, nonostante la condizione di semiesilio volontario, s’iniziò a bollare il carrettiere di San Martino come vero ‘Campionissimo’, ridimensionando lo status di Costante Girardengo.

1924-1927, quattro edizioni di Grand Boucle, l’ultima delle quali abbandonata sui tempestosi Pirenei, proferendo la celebre e stizzita frase: “Basta col Tour, bisogna troppo pensare!”. Quattro stagioni: tanto bastò a Bottecchia per divenire leggenda popolare. Poi la morte, una morte misteriosa, da noir. Una morte prima insabbiata e archiviata frettolosamente, poi studiata e approfondita da decenni di letteratura investigativa.

Fu un ‘giorno senza’, quel 3 giugno 1927. Il ricercato vocabolario di Gianni Mura lo descrisse con queste ispirate parole. Fu un ‘giorno senza’ sulle spoglie strade friulane, vie d’abitudini e allenamenti, di coltivazioni e stagionalità. Bottecchia era stato costretto a pedalare senza amici e gregari al suo fianco: qualcuno doveva raggiungere la fidanzata, qualcun altro stava imbiancando la facciata di casa, nessuno aveva risposto alla sua chiamata.

Lo trovarono due contadini, disteso a terra su un prato, completamente trasfigurato. Il volto, coperto di sangue rosso scuro, aveva smesso di essere una maschera di polvere e fango. Il corpo, da sublime ingranaggio ciclistico, era tornato ad essere un mucchio di ossa e angoli retti. Venne issato su un carro, privo di conoscenza, e portato dalla piccola frazione di Trasaghis all’ospedale di Gemona, attraversando il lento fluire del Tagliamento.

Gli riscontrarono fratture alla volta, alla base cranica e alla clavicola. Dopo dodici giorni fluttuanti tra il dolore e la sfiducia generale, Ottavio Bottecchia morì. Le indagini ufficiali decretarono rapidamente il decesso accidentale, dovuto ad una rovinosa caduta.

La moglie di Bottecchia parlò di un malore: termine, stando alla sua testimonianza, proferito dal marito durante gli ultimi istanti di lucidità. Ad avvalorare questa tesi, oltre alle conferme della nipote Elena e di un’infermiera, le dichiarazioni di un oste del luogo, ‘colpevole’ di aver servito al ciclista una birra ghiacciata poco prima del tragico epilogo. La vedova Bottecchia ottenne, grazie a questo tipo di archiviazione giudiziaria, un premio assicurativo di 500mila lira, cifra esorbitante per l’epoca.

Non tutti, però, credettero a questa versione dei fatti. Ombre e stranezze cominciarono a popolare le ricostruzioni dei fatti. A molti, per esempio, parve strano che la bicicletta di Bottecchia fosse uscita completamente illesa dal rovinoso impatto con la strada. Bicicletta che, dopo pochi giorni, non venne più trovata. A molti non parve coincidere il danno effettivo, soprattutto la duplice frattura cranica, con la dinamica dell’evento. Ombre e stranezze ingigantite da ben tre confessioni in punto di morte, tutte discordanti tra loro.

Il primo a parlare fu un contadino che, prossimo alla dipartita, confessò l’omicidio a bastonate di Bottecchia, reo di aver rubato dell’uva dal suo campo. Ipotesi impossibile da confermare, vista l’assenza di uva nel periodo di giugno. La seconda testimonianza, ancora più romanzesca, arrivò direttamente da oltreoceano, da un sicario sardo, tale Berto Olinas. Olinas parlò di una corsa, quella di Anversa, di pochi mesi antecedente ai fatti di Trasaghis, parlò di un accordo non rispettato, di grandi scommesse saltate, di racket mafioso e di una vendetta attuata prima sul fratello di Bottecchia, Giovanni, trovato morto in circostanze sinistramente analoghe nel maggio dello stesso anno, poi sul diretto interessato.

Forse fantasie, forse suggestioni, forse realtà. La terza via, quella più accreditata, fu suggerita da un parroco, Don Dante Nigiris, che indicò la via del delitto politico, del raid squadrista, della zuffa con alcuni membri locali del partito fascista. Tesi sostenuta anche dalla doppia pubblicazione di Enrico Spitaleri. Nelle pagine di questi due libri-inchiesta, la morte del fratello Giovanni viene imputata ad una manovra sbagliata della macchina di Franco Marinotti, noto gerarca friulano. Le rimostranze di Ottavio e lo sdegnato rifiuto di 100mila lira come risarcimento, seguite da copiosi insulti, avrebbero poi spinto Marinotti ad indire una caccia all’uomo finita nel peggiore dei modi.

Dal nulla al tutto, dal correre per la fame alla fama. Per poi perdere ogni cosa nell’anonima campagna friulana, antitesi naturale di quelle cattedrali verticali scalate di Giallo vestito. Per poi lasciare ogni cosa alla propria famiglia, ad appena 32 anni: 32, come i nipoti che sfamò grazie ai guadagni di Tour e corse.

Non è bastato un secolo a diradare le nubi d’incertezza aleggianti sulla morte di Ottavio Bottecchia, non è bastato un secolo a comprendere la misteriosa dipartita del muratore veneto che, correndo per conquistare ‘schei’, si era ritrovato a conquistare il mito.

Gianmarco Pacione

Fonte: Athletamag

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università di L’Aquila, ideologo movimento ambientalista Ultima Generazione e membro attivo Fondazione Michele Scarponi Onlus