Comitati di Appoggio per la Resistenza del Comunismo

16 MARZO 2003-16 MARZO 2023: I PRIMI 20 ANNI DALLA MORTE DEL COMPAGNO DAVIDE CESARE, NOME DI BATTAGLIA “DAX”

Vasto (CH), lì 16 Marzo 2023 ore 15.31

amici ed amiche che seguite il mio blog, un buon pomeriggio a tutti e a tutte voi. Questo articolo voglio dedicarlo al compagno Davide Cesare detto Dax del Centro Sociale Orso, ucciso a coltellate da dei simpatizzanti fascisti in Via Brioschi a Milano il 16 Marzo 2003 ed oggi ricorrono i 20 anni esatti dalla sua morte.

Quando a Milano morì Davide Cesare, detto “Dax”

Fu assassinato in Via Brioschi a Milano con 13 coltellate da un simpatizzante fascista, in una notte segnata da violenze e scontri con le forze dell’ordine

Un murale dedicato a Dax, a Milano (ANSA / MATTEO BAZZI)
https://www.ilpost.it/2023/03/16/omicidio-davide-cesare-dax/

Il 16 marzo 2003, vent’anni fa, Davide Cesare, conosciuto come Dax, fu aggredito a Milano da tre simpatizzanti di estrema destra e assassinato con 13 coltellate. Dax era militante del centro sociale O.R.So. (Officine della resistenza sociale) di via Gola e l’aggressione avvenne tra via Brioschi e via Zamenhof, nella zona sud della città, alle 23:30. Insieme a lui furono aggrediti altri tre ragazzi: Alex Alesi, Fabio Zambetta e Davide Brescancin. Alesi venne ferito in maniera grave da otto coltellate, Zambetta da due coltellate alla spalla e alla schiena. Nella notte vennero feriti molti altri militanti di sinistra, ma anche poliziotti e carabinieri, in seguito a una serie di cariche delle forze dell’ordine avvenute fuori e dentro l’ospedale San Paolo, dove erano stati portati i feriti e dove Dax era stato dichiarato morto.

La polizia in un primo momento disse che era dovuta intervenire perché i compagni del ragazzo ucciso volevano portare via la salma. Quando venne ucciso, Dax aveva 26 anni. Era di Rozzano, in provincia di Milano, e aveva una figlia di sei anni. Lavorava come operaio e camionista ed era militante del centro sociale di via Gola.

Davide Cesare (ALABISO / ANSA / PAL)

Ad aggredire i militanti di sinistra furono Giorgio Morbi, 53 anni, insieme ai suoi figli Federico, 29 anni, e Mattia, 17. Dax venne accoltellato dal figlio più grande, Federico. I tre non appartenevano a nessun gruppo politico ma avevano notoriamente simpatie fasciste. Nel corso della perquisizione a casa loro, non lontano dal luogo dell’aggressione, furono trovati alcuni oggetti celebrativi del fascismo, tra cui busti di Benito Mussolini.

Cinque giorni prima dell’aggressione Federico Morbi era uscito con il proprio cane, diretto a un parco poco distante. Il cane era un rottweiler chiamato Rommel, dal nome di un celebre generale della Germania nazista, comandante dell’Afrikakorps in Nordafrica e poi responsabile della difesa del Vallo Atlantico. Passando in via Zamenhof, Morbi aveva richiamato il cane e qualcuno, sentendo il nome, gli aveva urlato «Nazista!». Dopo pochi minuti venne aggredito, come denunciò lui il giorno dopo alla polizia, da una decina di ragazzi con calci e pugni.

La sera del 16 marzo Federico e Mattia Morbi, seguiti dal padre con al guinzaglio il rottweiler, uscirono di casa e incrociarono i quattro militanti di sinistra: Dax, Alesi, Zambetta e Brescancin. Secondo il racconto dei militanti dell’O.R.So, Giorgio Morbi e i due figli li aggredirono subito a colpi di coltello. Durante il processo il figlio più grande, Federico, lesse una dichiarazione in cui sostenne che le cose andarono diversamente: disse di non aver mai avuto simpatie politiche e che lui e la sua famiglia quella sera erano stati aggrediti.

In ogni caso a essere colpiti furono i quattro militanti, il processo stabilì che Dax venne colpito da Federico Morbi con 13 coltellate: sei alla schiena, sei al torace e una, quella mortale, alla gola. Dopo le coltellate, i tre aggressori si allontanarono. Dax e gli altri due feriti furono portati all’ospedale San Paolo. Qui arrivarono i compagni e gli amici degli aggrediti, ma intanto erano state avvertite le forze dell’ordine e quindi fuori dall’ospedale trovarono schierati una cinquantina di poliziotti e carabinieri.

Il questore di Milano, Vincenzo Boncoraglio, il giorno dopo sostenne che le forze dell’ordine erano intervenute perché i ragazzi volevano portare via la salma di Dax. Polizia e carabinieri caricarono più volte, secondo le testimonianze di medici e infermieri del San Paolo anche inseguendo i militanti di sinistra nei corridoi dell’ospedale. Un video, portato al processo, mostrò un poliziotto e un carabiniere picchiare un ragazzo a terra.

Le indagini su ciò che avvenne quella notte portarono poi alla denuncia di quattro militanti e di tre membri delle forze dell’ordine: il poliziotto e il carabiniere del video e un altro carabiniere che fu trovato con una mazza da baseball. In primo grado due militanti vennero condannati a un anno e otto mesi di reclusione mentre altri due furono assolti. Due esponenti delle forze dell’ordine furono assolti mentre un altro carabiniere fu condannato a sette mesi di reclusione. In appello venne assolto anche il terzo carabiniere mentre le condanne ai due militanti vennero confermate.

Nella sentenza di primo grado i giudici scrissero che le azioni dei compagni di Dax «producevano una reazione da una parte inefficace, dall’altra eccessivamente dura da parte delle forze dell’ordine, culminata nell’inseguimento all’interno del pronto soccorso di alcuni ragazzi che ivi si erano rifugiati e in indiscriminati comportamenti violenti (manganellate, calci e via esemplificando) non giustificati né da un’attuale opposizione dei singoli, né dalla necessità di compiere un atto di ufficio, ma di natura puramente intimidatoria e ritorsiva».

Giorgio, Federico e Mattia Morbi vennero arrestati la mattina del 17 marzo: furono individuati grazie al nome del cane che in zona era molto noto. Il processo si svolse nel maggio 2004, la famiglia di Dax fu rappresentata dagli avvocati Giuliano Pisapia, che sarebbe poi diventato sindaco di Milano, e Mirko Mazzali. Federico Morbi, riconosciuto come autore materiale dell’omicidio, venne condannato a 16 anni e otto mesi di reclusione; il padre fu condannato a tre anni e quattro mesi per il tentato omicidio di un altro dei militanti; per Mattia Morbi, il fratello minorenne, venne deciso l’affidamento in prova in comunità per un periodo di tre anni. Alla madre di Dax vennero riconosciuti 150mila euro di risarcimento, per la compagna e la figlia di Dax vennero decisi 100mila euro a testa.

Il centro sociale O.R.So di via Gola venne sgomberato e chiuso nel 2006.
Sabato 18 marzo, per l’anniversario della morte di Dax, è previsto un corteo che partirà alle 14:30 da piazzale Loreto a Milano. Quel giorno verranno ricordati anche gli omicidi di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, detto Iaio, entrambi assassinati a colpi di pistola il 18 marzo 1978 in via Mancinelli, vicino a dove allora si trovava il centro sociale Leoncavallo. Avevano 18 anni. Le indagini per quell’omicidio, chiuse e riaperte negli anni, non hanno mai portato a un rinvio a giudizio. Furono indagati tre fascisti romani: Massimo Carminati, Mario Corsi e Claudio Bracci. La giudice per l’udienza preliminare Clementina Forleo, accogliendo la richiesta di archiviazione, scrisse:

Pur in presenza dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva ed in particolare degli attuali indagati, appare evidente allo stato la non superabilità in giudizio del limite appunto indiziario di questi elementi, e ciò soprattutto per la natura de relato delle pur rilevanti dichiarazioni.

Fonte: Il Post

Chi era Davide Dax Cesare e cos’è successo il 16 marzo di vent’anni fa

Il centro sociale Orso e lo scontro con la famiglia Morbi in via Zamenhof: ritratto del militante che è diventato un simbolo

Murales per Dax https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/dax-davide-cesare-chi-e-pst25b2u

Milano – Sono passati 20 anni da quella maledetta notte del 16 marzo 2023 quando Milano si ritrovò catapultata in una clima da anni di piombo, quando era il sangue a regolare i conti tra estrema destra ed estrema sinistra. Quella notte di sangue ne venne versato tanto e a perdere la vita fu un giovane militante del centro sociale Orso di via Gola, Davide Cesare, 26 anni, conosciuto da tutti come “Dax”. Un nome, quello di Dax, che in città si incontra ancora oggi: a lui è dedicato il grande murales sulla Darsena, ma anche altri graffiti in via Gola e uno sul cavalcavia Bussa

Il centro sociale Orso

Il destino di Dax viene segnato la notte del 10 marzo 2003, una settimana prima della sua morte. Davide Cesare è un operaio di un’azienda di Vimodrone, padre di una bimba di 5 anni che vive con la madre a Ghedi (Brescia), frequenta il centro sociale Orso (acronimo di Officina di Resistenza Sociale) di via Gola, uno degli ultimi rimasti in città dopo la “normalizzazione” iniziata negli anni 2000 a suon di sgomberi

Murales per Dax in via Gola

Il cane Rommel

Con gli amici si ritrova anche al Tipotà, pub alternativo storico di Milano, in una traversa di corso San Gottardo. Proprio davanti al locale, che si trova a pochi passi dal parco di via Tabacchi, la sera del 10 marzo passa un ragazzo che sta portando a spasso il suo rottweiler. Un gruppo di clienti fuori dal pub sentono il giovane chiamare il cane: “Rommel”. Un nome, chiaro omaggio al generale tedesco icona del Terzo Reich, che ai giovani del Tipotà non sfugge. Parte l’insulto: “Nazista!”. Il diverbio finisce poi con un’aggressione: il ragazzo viene picchiato con calci e pugni, finisce al pronto soccorso. Alla polizia dirà di essere stato aggredito da 10 persone.

Il busto di Mussolini

Il ragazzo con il cane si chiama Federico Morbi, ha 29 anni e gestisce un laboratorio di pelletteria in zona. Abita con la famiglia, mamma Liliana, papà Giorgio, 53 anni, e il fratello Mattia, 17 anni, nei pressi del Tipotà. Il cane, si scoprirà poi, non si chiama così per caso. Federico e Mattia hanno look da naziskin e in casa le simpatie fasciste non sono tenute nascoste. Nelle perquisizioni successive all’omicidio di Dax verranno trovati simboli del ventennio e un busto di Mussolini

La vendetta

L’aggressione davanti al Tipotà non ha conseguenze legali, ma Federico Morbi e la sua famiglia non possono e non vogliono dimenticare. La brace cova sotto la cenere e la notte del 16 marzo ecco la scintilla che fa riesplodere l’incendio. I tre maschi della famiglia Morbi escono di casa con il cane, incrociano Dax con alcuni amici vicino al Tipotà. Volano di nuovo insulti tra i due gruppi. E a quel punto Federico Morbi tira fuori il coltello. Che colpirà Davide Cesare con 13 fendenti. L’amico che era con lui, Antonino Alesi, verrà colpito con 8 coltellate. Mentre Alesi se la caverà con ferite alla schiena e alla spalla, una delle coltellate che ricevute da Dax, alla gola, gli sarà fatale. Dopo lo scontro i Morbi fuggono, nel frattempo arrivano gli agenti e sul posto si ammassano un gran numero di persone. La situazione è esplosiva, gli agenti sono assediati e i soccorsi fanno fatica ad arrivare.

Scontri all’ospedale

La tensione si sposta poi all’ospedale San Paolo, dove Dax è stato trasportato e dove però è arrivato già cadavere. Fuori dall’ospedale arrivano un centinaio di militanti da tutta Milano. Vogliono entrare, vogliono vedere cos’è successo al loro compagno. Scontri e tafferugli con la polizia, arrivata nel frattempo, vanno in scena sul piazzale davanti al Pronto Soccorso. Ci vorrà tutta la notte per riportare l’ordine. E solo gli appelli alla calma della madre di Davide nei giorni successivi eviterà il ripetersi di scontri e tensioni.

I funerali di Davide Cesare. A destra, la mamma di Dax, Rosa Piro

Carcere e (mancato) risarcimento

I membri della famiglia Morbi vengono arrestati poche ore dopo l’omicidio. Dicono di essere stati aggrediti e di aver reagito. Durante il processo, con rito abbreviato, Federico Morbi scrive però una lettera di confessione e chiede perdono. Viene condannato a 16 anni e 8 mesi di carcere. Giorgio Morbi, il padre, viene condannato per il tentato omicidio di Antonino Alesi, a 3 anni e 4 mesi, mentre Mattia, ancora minorenne viene affidato a una comunità. Il giudice fissa in 350mila euro il risarcimento alla famiglia di Cesare: soldi però che gli imputati non hanno ancora versato. 

Un corteo in ricordo di Dax

La fine dei centri sociali

Il centro sociale Orso è stato sgomberato definitivamente con un maxi blitz della polizia nell’ottobre del 2006. Via Gola, oggi una sorta di museo di street art, con tante opere dedicate proprio alla memoria di Dax, resta un caso anomalo nella zona dei Navigli, ormai dedicata anima e corpo al divertimento notturno dei milanesi. Ci sono ancora case occupate ed attivo è un altro centro sociale (Cuore in Gola) che organizza attività e cene sociali nella via. Per quanto riguarda invece i centri sociali cittadini, “l’epoca d’oro” degli anni 90 è uno sbiadito ricordo: in città resistono solo il Leoncavallo in via Watteau, lontano parente però del centro sociale conosciuto in tutta Italia, il Conchetta, vero monumento dell’antagonismo meneghino, la Casa Loca alla Bicocca e il Lambretta in zona Stazione Centrale.  

Fonte: Il Giorno

Davide Cesare «Dax», vent’anni fa l’omicidio: la storia della «notte nera» di Milano

di Giuseppe Scuotri

Il 16 marzo 2003 venne ucciso con tredici coltellate il ventiseienne Davide Cesare, conosciuto dagli amici come Dax. Il suo omicidio, avvenuto all’incrocio tra via Brioschi e via Zamenhof, si lascerà dietro una lunga scia di scontri e tensioni.

Davide Cesare (Ansa, dal nostro Archivio)
https://milano.corriere.it/notizie/23_marzo_15/davide-cesare-dax-omicidio-storia-51805aab-3d91-4741-87e5-95fc801d4xlk.shtml

È bastato uno sguardo, da un capo all’altro della strada. Federico, Mattia e Giorgio Morbi, tre simpatizzanti di estrema destra, scrutano Davide Cesare, Alex Alesi, Fabio Zambetta e Davide Brescancin, militanti del centro sociale Orso di Milano.

Aspettano da giorni l’occasione per vendicare un’aggressione subita. Volano insulti, poi comincia lo scontro.

Sembra di essere negli anni di piombo, ma è il 16 marzo 2003. A farne le spese quella notte è Davide Cesare, per gli amici «Dax».

Il ventiseienne, padre di una bambina di 5 anni e mezzo, viene ucciso con tredici coltellate.

Il suo omicidio si lascerà dietro una lunga scia di scontri e tensioni, segnando una delle pagine più buie nella storia recente del capoluogo lombardo, da molti definita semplicemente «la notte nera».

La vittima
Davide Cesare ha 26 anni e una vita divisa tra lavoro, famiglia e attivismo politico. È cresciuto a Rozzano con papà Angelo, mamma Rosa e due fratelli più piccoli, Daniele e Claudio. La sua militanza è cominciata nel ’95 tra le file di un gruppo giovanile di destra, Studenti in rivolta.

Gli amici lo descrivono come un gigante buono: «Su di lui puoi sempre contare, non ti fa pesare le sue grane perché è troppo occupato a risolvere quelle degli altri». E di prove, nella vita, ne ha affrontate diverse. Sei anni fa Wendy, la sua fidanzata, ha dato alla luce una bambina, Jessica. In quel momento, Dax ha deciso di abbandonare gli studi da ragioniere per mantenere la sua nuova famiglia: si è trasferito a Ghedi, il piccolo centro del Bresciano dove viveva la compagna, lavorando come operaio e camionista per varie imprese. Qui ha iniziato a frequentare la sezione locale di Rifondazione Comunista.

Quando la relazione con Wendy è terminata, due anni fa, Dax è tornato a Milano. Ora divide un appartamento con alcuni amici e ha un impiego in un’azienda siderurgica di Vimodrone. Nel poco tempo libero va a trovare la figlia e frequenta l’Orso, un’officina occupata in via Emilio Gola, a pochi metri dal Naviglio Pavese. Con i compagni del centro sociale è possibile vederlo spesso passeggiare nella zona tra via Brioschi e via Zamenhof.

Il luogo dell’omicidio di Davide Cesare, all’incrocio tra via Brioschi e via Zamenhof

Federico, Mattia e Giorgio Morbi 
La famiglia Morbi abita in un condominio a poche decine di metri da quell’isolato. Giorgio, 53 anni, è un dipendente della Sea, l’azienda che gestisce gli aeroporti di Malpensa, Linate e Orio al Serio. È sposato con Liliana e ha due figli, Federico e Mattia, di 29 e 17 anni. I ragazzi sono artigiani: gestiscono un laboratorio di pelletteria nel quartiere. Nessuno tra loro è iscritto a formazioni politiche, ma le loro simpatie per l’estrema destra non sono un mistero: in casa sono esposti diversi oggetti che rimandano al Ventennio, tra cui un busto in bronzo di Mussolini. Federico e Mattia vanno in giro con il look tipico degli skinhead: bomberone e capelli rasati quasi a zero. Persino il loro cane di famiglia, un rottweiler di ottanta chili, è stato chiamato Rommel, come il generale nazista. Proprio il nome dato all’animale sarà la scintilla della drammatica catena di eventi che porterà alla morte di Dax.

L’antefatto 
È la sera di lunedì 10 marzo. Federico è uscito con Rommel al guinzaglio. È solo, nel breve tragitto da casa sua al parchetto passa  in via Zamenhof. Qualcuno lo sente chiamare il cane. Quel particolare tradisce la sua appartenenza politica. «Ma che nome gli hai dato? Nazista!». Vola qualche insulto, ma la cosa finisce lì e il ragazzo prosegue per la sua strada. Dopo pochi minuti, Federico viene raggiunto e aggredito a calci e pugni da un gruppo di ragazzi. Sono almeno in dieci, dirà alla polizia il giorno dopo. Riporta lesioni di lieve entità, viene medicato al pronto soccorso e dimesso. Si rimetterà completamente in cinque giorni, ma quell’episodio lo segna. Quella storia non finirà lì.

L’aggressione
La settimana passa senza particolari sussulti. Arriva il 16 marzo, una domenica sera come tante, i locali del Ticinese sono pieni. Federico e Mattia escono di casa, seguiti dopo pochi minuti dal padre con Rommel. Davide sta passando quelle ore in compagnia di tre amici dell’Orso. Attorno alle 23.30, i due gruppi si incrociano su via Zamenhof: si riconoscono, partono gli insulti. «Fascista!», «Comunista!». La situazione degenera in pochi minuti, i fratelli Morbi tirano fuori i coltelli. Federico colpisce Davide con tredici fendenti: sei alla schiena, sei al torace, uno fatale alla gola. Lui barcolla, poi si accascia privo di sensi sul marciapiede. 

Nello scontro restano feriti anche Antonino «Alex» Alesi, raggiunto da otto coltellate, e Fabio Zambetta, colpito in modo più lieve alla spalla sinistra e alla schiena. La furia dei Morbi sui tre malcapitati, bersagliati con calci e pugni anche se sanguinanti e riversi a terra, si placa solo al sopraggiungere di altre persone.

Richiamati dalle urla, decine di ragazzi si ammassano attorno ai feriti. Dopo pochi minuti arrivano anche le forze dell’ordine. C’è tensione: gli agenti faticano a tenere il cordone di sicurezza, volano insulti e spintoni. I mezzi di soccorso sono rallentati dalla strada ostruita, cosa che accende ancor di più gli animi. Alla fine i sanitari si districano a fatica tra la folla e caricano i ragazzi sull’ambulanza. I Morbi nel frattempo si sono allontanati, ma nella ressa c’è chi li ha riconosciuti. Di nuovo, c’è chi ha ben impresso un particolare: un cane di nome Rommel.

La targa che ricorda Davide Cesare, ucciso il 16 marzo 2003

Gli scontri al San Paolo 
Mentre l’ambulanza corre verso l’ospedale San Paolo, in città i telefoni dei militanti di estrema sinistra iniziano a suonare. «Hanno accoltellato un ragazzo dell’Orso, scendi!», il passaparola è veloce ed efficace. I primi a presentarsi al pronto soccorso, presidiato da alcune pattuglie di polizia e carabinieri, sono gli amici delle vittime. Diventano quaranta, in meno di un’ora sono quasi un centinaio. Molti cercano di entrare, chiedono con insistenza dei loro compagni. Al San Paolo, però, Dax è arrivato senza vita. Leggendo la situazione, i medici tentano di non far filtrare subito la notizia, finché dall’edificio non esce un ragazzo che grida: «È morto, è morto!».

Questa volta basta poco: qualche provocazione, uno spintone di troppo e il nervosismo della folla esplode in uno scontro aperto. Le forze dell’ordine, inizialmente sopraffatte numericamente, chiamano rinforzi e caricano i presenti. Persone coperte di sangue entrano nel pronto soccorso in cerca di cure e riparo, nascondendosi anche dietro le barelle dei pazienti in attesa. Alla fine si conteranno decine di feriti da entrambe le parti. La situazione si calma solo intorno alle 2 con l’arrivo della Digos: incoraggiati dall’avvocato Mirko Mazzali, molti dei presenti iniziano a collaborare, raccontando agli agenti cos’hanno visto in via Brioschi.

L’arresto 
Sono le cinque del mattino. Il campanello di casa Morbi suona con insistenza. È la Digos: le testimonianze raccolte in poche ore sono bastate a individuare in Giorgio, Federico e Mattia i responsabili dell’aggressione. I tre capiscono subito e fanno poche storie: «Ieri sera siamo stati aggrediti, stai calma», dicono a Liliana che, incredula e spaventata, resta sola in casa con Rommel. Per la seconda volta, il nome del rottweiler si è rivelato una traccia fondamentale per arrivare ai suoi padroni, a cui vengono sequestrati degli abiti macchiati di sangue e una serie di oggetti che rimandano al ventennio.

Una città col fiato sospeso 
Nei giorni successivi su Milano cala una cappa di tensione. Omicidi politici, rossi contro neri: paure che sembravano sopite da decenni serpeggiano di nuovo tra le strade del Ticinese. Sono in molti a temere che la spirale di violenze e ritorsioni possa durare a lungo. Segnali e pretesti non mancano: nel quartiere appaiono numerose scritte contro la famiglia Morbi e il 18 marzo, per un curioso caso, è in programma una manifestazione per ricordare Fausto e Iaio, due militanti di sinistra uccisi venticinque anni prima. In quest’occasione Rosa Piro, la madre di Davide, tenta di placare gli animi: «Al sangue non si risponde col sangue», dirà ai tanti giovani presenti. Un appello, questo, che ha continuato a rinnovare in ogni occasione.

Una scritta in ricordo di Davide Cesare

Il processo 
In tribunale, intanto, gli imputati scelgono la formula del rito abbreviato. Il maggiore dei fratelli Morbi consegna ai magistrati una lettera in cui confessa di aver ucciso Davide e chiede perdono per le proprie azioni. Le sentenze arrivano un anno dopo, nel maggio del 2004: Federico viene condannato a sedici anni e otto mesi di reclusione. Suo padre Giorgio, riconosciuto colpevole del tentato omicidio di Antonino Alesi, a tre anni e quattro mesi di carcere. La sentenza più mite è quella emessa dal Tribunale dei minori per Mattia: tre anni di messa in prova in una comunità di recupero. Alla famiglia Cesare, rappresentata da Mirko Mazzali e Giuliano Pisapia, viene riconosciuto un risarcimento complessivo (mai versato dagli imputati) di 350 mila euro.

L’eredità di Dax 
Oggi è possibile imbattersi in Dax un po’ dovunque a Milano. Il suo nome e il suo volto campeggiano nei murales lungo la Darsena e su volantini e striscioni di tante manifestazioni di sinistra, come quelle in programma in sua memoria il 16, 17 e 18 marzo. La sua è un’eredità complessa, non sempre condivisa, in cui l’aspetto ideologico rischia di prevalere su quello umano. 

«È complicato dire se sia stato un omicidio politico nel senso stretto del termine – afferma Mirko Mazzali –. È vero che i Morbi non avessero alcuna affiliazione politica, ma nessuno tiene in casa un busto di Mussolini per caso. Al di là di tutto, mi piace pensare che il nome di Davide oggi rappresenti valori positivi. Lo scorso otto marzo, ho sentito un corteo femminista gridare “Dax è vivo e lotta insieme a noi”. Erano ragazzine che all’epoca dei fatti non erano ancora nate. Mi è rimasto impresso. Vuol dire che se ne parla ancora, che il ricordo resiste ed è diventato un simbolo».

Il murale per Dax in Darsena, a Milano

Fonte: Il Corriere della Sera

Davide Dax Cesare, 20 anni dalla morte. La madre Rosa: “Il mio ragazzo ammazzato dai fascisti, ricordatelo ma senza violenza”

di Massimo Pisa

Davide Dax Cesare, 20 anni dalla morte. La madre Rosa: "Il mio ragazzo ammazzato dai fascisti, ricordatelo ma senza violenza"
Fotogramma Davide Cesare “Dax” https://milano.repubblica.it/cronaca/2023/03/16/news/dax_davide_cesare_anniversario_morte_milano-392272540/

Era il 16 Marzo 2003 quando il ragazzo, militante del centro sociale Orso, fu ucciso in via Gola a Milano da Federico, Mattia e Giorgio Morbi: “Il mio ultimo giorno felice. Mai avuto le scuse da quella famiglia”.

“Sa perché l’ho fatta venire qui? Perché era uno dei posti di Davide. Non Dax: così lo chiamavano i suoi compagni di militanza. Davide veniva a studiare e giocare con i suoi amici. Era tutto diverso”. Sui prati della Cascina Grande, a Rozzano, giocano pochi bimbi e di certo non la conoscono la storia di Davide Cesare. È incisa sulla pelle di mamma Rosa Piro, che stasera sarà per le strade del Ticinese a ricordare il suo ragazzo, ucciso vent’anni fa a coltellate dai fascisti Federico, Mattia e Giorgio Morbi.

Fonte: Repubblica

Davide Cesare, 20 anni fa l’omicidio. L’avvocato che difese la famiglia: “Da nessuna parte dobbiamo piangere persone che muoiono per le proprie idee politiche”

L’avvocato della famiglia Cesare
https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/03/16/davide-cesare-lavvocato-che-difese-la-famiglia-da-nessuna-parte-dobbiamo-piangere-persone-che-muoiono-per-le-proprie-idee-politiche/7098911/

Mirko Mazzali fu protagonista della trattativa che portò la calma davanti all’ospedale San Paolo quando le forze dell’ordine caricarono le tantissime persone che, in un clima di rabbia e agitazione, erano arrivate a chiedere informazioni. “Ricordo che quando arrivai vidi tanto sangue che mi ricordò il sangue sui muri della Diaz. dove fui tra i primi ad arrivare”. Le forze dell’ordine temono per l’ordine pubbliche per la manifestazioni in programma: “Quello che preoccupa sono gli arrivi da fuori, ma io sono fiducioso che sarà una manifestazione combattiva ma non violenta”.

di Giovanna Trinchella | 16 MARZO 2023

A 20 anni dall’omicidio di Davide “Dax” Cesare, il militante dell’O.R.So (Officina di Resistenza Sociale) accoltellato a morte Milano nella notte tra il 16 e 17 marzo 2003 da militanti di estrema destra, e a 10 da una manifestazione che fu carica di tensione, sono forti le preoccupazioni della Prefettura di Milano e delle forze dell’ordine per quello che potrebbe accadere. Oggi è prevista una commemorazione nell’anniversario dell’omicidio che andrà avanti per tutto il giorno, venerdì è prevista una assemblea antifascista internazionale ed è in programma sabato il corteo nazionale “Antifascismo è anticapitalismo” che partirà alle 14.30 da piazzale Loreto. Mirko Mazzali, che come scrive in un post su Facebook dedicato a Dax ne ha viste “tante, sofferenze, dolori, paure”, è stato insieme a Giuliano Pisapia l’avvocato della famiglia del giovane Dax e fu protagonista della trattativa che portò la calma davanti all’ospedale San Paolo quando le forze dell’ordine, in un clima di rabbia e agitazione generale, caricarono le tantissime persone che erano arrivate a chiedere informazioni tra le lacrime.

Avvocato chi tutela l’ordine pubblico pensa che saranno giorni molto difficili. Lei è preoccupato?
Beh, sì. Oggi però ho letto le parole della mamma di Dax che ha invitato tutti a far sì che le manifestazioni siano non violente e io non posso non condividere. Io penso e spero che quando ci sono manifestazioni per ricordare persone defunte siano fatte per il ricordo. Mi auguro di non sbagliarmi, ma io sono convinto che grosse cose non succederanno. Vero è che questo è un periodo un po’ particolare sia dal punto di vista della politica nazionale e sia per la questione Cospito. Ma spero che non ci siano episodi gravi o rilevanti. Quello che preoccupa sono gli arrivi da fuori, ma io sono fiducioso che sarà una manifestazione combattiva ma non violenta.

Sono passati 20 anni da quell’omicidio di stampo fascista, ma secondo lei – aldilà del governo attuale – il clima è cambiato?
Venti anni dal punto di vista politico sono una cosa enorme. È cambiato tantissimo: il movimento antagonista e il movimento in generale. Ci sono episodi non so se derivanti dal mutamento politico, come i fatti di Firenze, che nel suo contesto destano preoccupazione. Io spero che, da nessuna parte, dobbiamo piangere persone che muoiono per le proprie idee politiche. Spero e credo che questo non si debba più verificare: come piangere la morte di un ragazzo come Dax.

I Morbi – il padre e due figli – furono condannati a vario titolo ma non hanno mai risarcito.
Salvo una piccola somma che veniva prelevata al figlio maggiore (condannato per l’omicidio, ndr) quando lavorava in carcere, non ci sono stati risarcimenti. C’è comunque una causa civile in corso. Dax aveva una bimba piccola che ha potuto studiare grazie agli amici e ai famigliari. Questo mi sembra un fatto particolarmente grave.

La notte della morte davanti all’ospedale San Paolo grazie al suo intervento le tensioni fortissime – tra i militanti e le forze dell’ordine – terminarono. Cosa ricorda di quella notte?

Io conoscevo Dax perché era venuto per qualche consiglio giuridico. Quando mi telefonarono il primo sentimento fu l’incredulità che fosse morto accoltellato da fascisti come mi avevano detto. Soprattutto l’incredulità che fosse stato possibile quello che stava accadendo al San Paolo ovvero che ci fossero state delle cariche all’interno di un pronto soccorso. Ricordo che quando arrivai vidi tanto sangue che mi ricordò il sangue sui muri della Diaz. dove fui tra i primi ad arrivare. Con tutto il dovuto rapporto tra quello accaduto a Genova e quello accaduto all’ospedale. Ma quello che mi è rimasta impressa fu la disperazione dei genitori. Poi chiesi ai ragazzi, che erano stati testimoni oculari e che erano molto arrabbiati, di aiutare la Digos, all’epoca c’era il dottor Bruno Megale, a rendere una testimonianza. Che poi è servita arrestare i responsabili nell’immediatezza e svelenire un clima diventato pesante. Piangevano la morte del loro amico, c’era stata questa colluttazione ed erano stati pestati al pronto soccorso. C’erano stati molti fermi che poi furono trasformate in denunce. Un paio di poliziotti finirono a processo per aver picchiato un ragazzo a terra, ma dopo una condanna in primo grado furono assolti in appello.

C’è qualcosa che vuole aggiungere?
La settimana scorsa sotto il mio studio è passato il corteo dell’8 Marzo mi sono affacciato e ho sentito lo slogan: Dax è vivo e lotta insieme a noi e mi ha fatto venire in mente come in qualche misura la memoria di Dax per la famiglia e amici è stata trasmessa a queste ragazze non erano ancora nate e questo vuole dire che il ricordo è rimasto in un momento in cui la memoria del passato non sembra funziona, basti pensare alla rimozione che avviene sui periodi del fascismo e del nazismo, mi sembra un cosa bella.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

Davide Cesare “Dax” 1977-2003

Per chi non lo sapesse, nel frontespizio del libro Qvimera scritto dall’ottimo scrittore e compagno Gino Marchitelli di Carovigno (BR) ed attuale Responsabile della sede di Rifondazione Comunista e Vice Presidente dell’ANPI di San Giuliano Milanese (MI), libro che mi è stato spedito a casa dal suddetto scrittore e mio amico personale, l’autore stesso dedica il libro proprio a Davide Cesare con la seguente frase: “A Dax ucciso per mano fascista”.

Il libro Qvimera, romanzo scritto da Gino Marchitelli sulla base di vicende reali che accadono nell’hinterland milanese
https://igufinarranti.altervista.org/qvimera-di-gino-marchitelli-recensione/
https://www.ibs.it/qvimera-ebook-gino-marchitelli/e/9788891198334
Gino Marchitelli, l’autore del secondo romanzo noir “Qvimera”
https://www.facebook.com/gino230559/
https://www.instagram.com/ginomarchitelli_official/
https://www.morellinieditore.it/autore-gino-marchitelli-380402.html
https://www.unilibro.it/libri/f/autore/marchitelli_gino
https://www.milanotoday.it/eventi/a-casa-dell-autore-noir-gino-marchitelli.html

Dott. Alessio Brancaccio, il compagno “Sirio B”, il “Combattente delle Stelle”, tecnico ambientale Università di L’Aquila, ideologo movimento ambientalista Ultima generazione e membro attivo Fondazione Michele Scarponi Onlus

FARE I CONTI CON LA REALTA’

Sui risultati delle elezioni regionali in Lombardia e Lazio

https://www.carc.it/2023/02/14/fare-i-conti-con-la-realta/

I risultati delle elezioni regionali in Lombardia e in Lazio chiudono il cerchio sulla narrazione dell’ascesa di Giorgia Meloni, un cerchio idealmente aperto dallo scorso luglio con la convocazione delle elezioni politiche e artificiosamente allargato dalla propaganda di regime.
L’ascesa di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia e la pletora di nostalgici del Ventennio era ed è tutt’altro che irresistibile. Anzi, a ben vedere esiste solo come fenomeno mediatico.
Se i risultati delle elezioni politiche del 25 settembre avevano già fatto emergere lo scollamento fra le larghe masse popolari e la classe dominante, i suoi partiti (in particolare con i rappresentanti dell’Agenda Draghi), il suo sistema politico e le sue “liturgie democratiche” (l’astensione fu del 36%), le elezioni regionali in Lombardia e Lazio aggravano il distacco e, con esso, le tensioni e le contraddizioni nella maggioranza di governo.

Per quanto riguarda l’allargamento del distacco è eloquente il dato dell’astensione record, intorno al 60%. Troppo alta per non creare il cortocircuito fra la realtà e la propaganda, in particolare con il commento di Giorgia Meloni: “il governo esce rafforzato da queste elezioni”. I partiti di governo “escono rafforzati” solo in termini percentuali, in verità il numero assoluto dei voti dimostra proprio il contrario.

Per quanto riguarda le tensioni e le contraddizioni nella maggioranza di governo, ce ne sono alcune palesi e altre sotto traccia. Le dichiarazioni di Berlusconi sul sostengo del governo italiano a Zelensky e all’esercito ucraino, a urne ancora aperte, appartengono alle prime. L’inizio della resa dei conti – che parte dalla Lombardia – per la spartizione di poltrone e traffici fra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia appartiene alle seconde.

Pertanto no, il governo Meloni non esce rafforzato dalle elezioni regionali, esce ulteriormente indebolito. Ma siccome la cosiddetta “opposizione” dell’altro polo delle Larghe Intese (dal PD al M5S) ne esce con le ossa rotte, allora Meloni, Fontana, Rocca & C. possono permettersi di cantare vittoria. Ma i fatti hanno la testa dura.

Le Larghe Intese in Lombardia

PartitoRisultati regionali 2018 affluenza 73,1%Risultati politiche 2022 affluenza 70,1%Risultati regionali 2023 affluenza 41,6%
FdI190.800 (3,6%)1.443.692 (28,5%)725.500 (25,2%)
Lega1.533.787 (26,6%)671.814 (13,3%)476.175 (16.50%)
FI750. 739 (14,30%)398.554 (7,9%)208.420 (7,2%)
PD1.008.560 (19,2%)961.894 (19,0%)628.774 (21,8%)
Alleanza verdi / sinistra/192.939 (3,8%)93.019 (3,2%)
M5S (nel 2018 e nel 2022 si presentava da solo)933.382 (17,8%)378.885 (7,5%)113.229 (3,9%)

Per Attilio Fontana le cose sono andate “talmente bene” che ha perso un milione di voti rispetto alle precedenti elezioni regionali (2.793.369 i voti che ha raccolto nel 2018, 1.774.477 nel 2023). I tre partiti principali della coalizione di Centro destra perdono, insieme, circa un milione di voti rispetto al 2018. Se ci limitiamo a Fratelli d’Italia, ha perso oltre 700mila voti in soli 5 mesi (di governo!).
Il PD ha perso più di 350mila voti in 5 anni e nella caduta libera si è portato appresso il M5S, per la prima volta alleato elettorale (il M5S perde più di 800mila voti in 5 anni). Tutti i voti che mancano all’appello sono quelli degli astenuti.

Le Larghe Intese in Lazio

PartitoRisultati regionali 2018 affluenza 66,3%Risultati politiche 2022 affluenza 64,3%Risultati regionali 2023 affluenza 37,2%
FdI220.460 (8,7%)844.939 (31,2%)519.633 (33,6%)
Lega252.772 (9,9%)170.384 (6,3%)131.631 (8.50%)
FI371.155 (14,6)185.540 (6,8%)130.638 (8,4%)
PD539.131 (21,2 %)523.083 (19,3%)313. 023 (20,5%)
Alleanza verdi / sinistra/104.572 (3,9%)42.314 (2,7%)
M5S559.752 (22%)406.065 (15%)132.041 (8,5%)
Polo progressista//18. 727 (1,2%)

Per inquadrare i risultati nel Lazio va tenuto conto che l’affluenza al voto (37,2%) è stata inferiore rispetto alla Lombardia (41,7%). Alle regionali del 2023 i principali partiti della coalizione di Centro destra perdono, insieme, più di 62mila voti rispetto al 2018. Fratelli d’Italia perde 325mila voti rispetto alle elezioni politiche dello scorso settembre. Il PD perde più di 200mila voti in 5 anni.
Da segnalare la batosta del M5S: benché corresse da solo (e non alleato al Pd come in Lombardia), ha perso 400mila voti rispetto a 5 anni fa.

La sintesi è che non solo il governo di Giorgia Meloni, ma tutto il sistema politico delle Larghe Intese esce con le ossa rotte. Tuttavia, è opportuno fare un ragionamento sull’astensione. Il 60% di astenuti è un dato positivo?
Se da una parte è la manifestazione dello scollamento delle larghe masse dalla classe dominante, dal suo sistema politico, dai partiti delle Larghe Intese – e pertanto sì, è un elemento positivo – dall’altra è anche la manifestazione di un vuoto da riempire e un’occasione persa, che chiama alla responsabilità e al cambiamento noi comunisti e quanti vogliono assumere un ruolo positivo nella lotta di classe in corso nel paese.

Per quanto riguarda il vuoto da riempire, il ragionamento è il seguente.
Per alimentare il movimento che trasforma la società non è sufficiente lo scollamento fra le larghe masse e la classe dominante. Quello scollamento, spontaneamente, non diventa mobilitazione per rovesciare la classe dominante; la protesta non diventa automaticamente mobilitazione per sostituire le autorità della classe dominante con le nuove autorità pubbliche che sono espressione delle masse popolari organizzate.
Soltanto gli ingenui, gli illusi, gli avventuristi e più in generale chi non ha fatto un bilancio della storia del movimento comunista (del nostro paese e internazionale) collegano automaticamente il crollo della fiducia e del legame fra le larghe masse e la classe dominante alla “rivoluzione che scoppia”.
La verità è che quel vuoto va riempito, la verità è che il nuovo potere delle masse popolari organizzate deve svilupparsi fino a soppiantare il potere dell’attuale classe dominante.
C’è davvero poco di cui essere soddisfatti di fronte all’avanzata dell’astensionismo, senza un progetto, un piano, una prospettiva per trasformare l’astensione elettorale (che è solo una delle molte manifestazioni dello scollamento fra masse popolari e classe dominante) nella condizione per incanalare la protesta, il disinteresse e il distacco in organizzazione, mobilitazione e coordinamento, in lotta per la costruzione del nuovo potere (leggi “Il nuovo potere, il potere degli organismi operai e popolari”).

Per quanto riguarda l’occasione persa, il discorso è il seguente.
Se vogliamo vedere in faccia la realtà, con le elezioni regionali non si chiude solo il cerchio della propaganda di regime sull’irresistibile ascesa di Giorgia Meloni, si chiude anche il cerchio delle irresponsabili velleità di essere “l’unica vera opposizione” dei partiti e delle organizzazioni anti Larghe Intese che invece di coalizzarsi vanno ognuno per conto proprio.
Già dai risultati delle elezioni politiche del 25 settembre, con il fallimento rispetto alla possibilità di riempire il parlamento di persone esterne al circolo di pressioni, ricatti, “mercato delle vacche” a cui i partiti delle Larghe Intese hanno ridotto le assemblee elettive nel processo di progressivo svuotamento del loro ruolo (leggi “Non piangere sulla disfatta elettorale. Fare un bilancio serio per avanzare!” Comunicato della Direzione Nazionale del P.CARC del 25.9.2022 ) erano emersi insegnamenti chiari, in particolare due:

– i promotori delle liste anti Larghe Intese devono urgentemente avviare un percorso di confronto e trattare apertamente e fino in fondo tutti i temi spinosi, le questioni su cui non c’è accordo, devono metterle nero su bianco e aprire la discussione alle masse popolari (iscritti, elettori, organismi operai e popolari, movimenti) per superarle in modo trasparente e democratico, per arrivare a una sintesi che sia coerente con le aspirazioni delle masse popolari (come fece NUPES per le elzioni legislative del 2022 in Francia);

– le liste anti Larghe Intese devono condurre la campagna elettorale con iniziative di rottura, senza limitarsi alle comparsate in Tv, ai comizi, agli aperitivi e ai piagnistei. Se è vero – ed è vero – che il meccanismo elettorale è un a farsa, un sistema antidemocratico, allora quella farsa va rovesciata con iniziative che rompono le liturgie e mettono al centro l’organizzazione e la mobilitazione delle masse popolari. Se accettano di rispettare le regole antidemocratiche, i lamenti per “il poco spazio”, “il poco tempo” e “la legge elettorale ingiusta” lasciano il tempo che trovano, sono manifestazione di impotenza (del resto le “regole” sono già note prima che inizi la campagna elettorale!).

Liste anti Larghe Intese in Lombardia

PartitoRisultati regionali 2018 affluenza 73,1%Risultati politiche 2022 affluenza 70,1%Risultati regionali 2023 affluenza 41,6%
Unione Popolare
(nel 2018 si considera la lista “Sinistra per la Lombardia”)
35.714 (0,68%)57.490 (1,1%)39.913 (1,39%)

Liste anti Larghe Intese in Lazio

PartitoRisultati regionali 2018 affluenza 66,3%Risultati politiche 2022 affluenza 64,3%Risultati regionali 2023 affluenza 37,2%
Unione Popolare (nel 2018 si considera la lista “Potere al Popolo”)33.372 (1,32%)46.538 (1,7%)10.289 (0,67%)
PCI//10.212 (0,66%)

I risultati delle lista anti Larghe Intese in Lombardia e in Lazio sono solo l’ulteriore conferma di quanto e come la tara dell’elettoralismo danneggia chi la pratica e allontana militanti ed elettori da queste liste. L’elettoralismo offusca, immobilizza e relega all’angolo i promotori delle liste anti Larghe Intese.
In Lombardia si è presentata solo Unione Popolare, ma il perseverare sulla stessa strada fallimentare (una campagna elettorale di fatto inesistente tra i lavoratori e le masse popolari) già seguita per le elezioni politiche del 25 settembre ha prodotto un risultato dietro il quale i promotori non possono più nascondersi.
In Lazio si sono presentate, divise, PCI e Unione Popolare. Il risultato?
Sia il Lombardia che in Lazio, nessuna lista anti Larghe Intese ha approfittato dell’astensionismo diffuso, nessuna ha fatto una campagna per trasformare l’astensione di protesta in mobilitazione; in entrambi i casi hanno contribuito ad aumentare l’astensione.

Tiriamo una conclusione. Per fare i conti con la realtà vanno banditi disfattismo e attendismo
Anche i risultati delle elezioni regionali dimostrano che la via elettorale NON è (e non può essere) la via principale per imporre il governo che serve ai lavoratori e alle masse popolari. Le elezioni e la campagna elettorale possono e devono essere usate per allargare la mobilitazione e l’organizzazione dei lavoratori e delle masse popolari.
Concludiamo su questo punto, su questo aspetto, perché anche dopo questa ennesima “batosta elettorale” per la sinistra, nella base dilaga il disfattismo.

“L’idea che per formare un governo bisogna passare per le elezioni, vincerle e poi, se si riesce a ottenere più del 50% dei voti, allora è possibile formare un governo è stata smentita più volte dall’esperienza. I casi più recenti in cui i vertici della Repubblica Pontificia, trovatisi in difficoltà per governare il paese, hanno cambiato governo senza passare per elezioni e hanno “convinto” lo stesso Parlamento a votare un nuovo governo sono:

1. la messa fuori gioco di Bersani che aveva vinto le elezioni del 2013 e sua sostituzione con Letta;

2. la sostituzione di Berlusconi con Monti nel dicembre 2011;

3. la sostituzione di D’Alema a Prodi nel novembre 1998;

4. la sostituzione di Dini a Berlusconi nel gennaio 1995;

5. la sostituzione di Fanfani a Tambroni nel luglio 1960.

La lezione è che occorre che gli organismi operai e popolari, in combinazione con gli esponenti democratici della società civile, i dirigenti della sinistra sindacale, gli esponenti non anticomunisti della sinistra borghese creino nel paese una situazione ingestibile dai vertici della Repubblica Pontificia con la soluzione di governo in carica, per indurli a installare un governo con cui “sedare (calmare) la piazza”, convinti di riuscire a riprendere in mano le cose. (…)

Rendere ingovernabile il paese significa in primo luogo mobilitare i lavoratori avanzati e combattivi a costituire in ogni azienda capitalista e pubblica organismi che prendono in mano le aziende, escono dalle aziende, prendono via via la testa di tutti i lavoratori (compresi i precari, le partite IVA e i lavoratori autonomi sostenendo le loro iniziative di disobbedienza alle autorità statali e locali, di sciopero fiscale e altre): agiscono cioè da nuove autorità pubbliche. Nel nostro paese basta un centinaio o anche meno di

– organismi aziendali come il Collettivo di Fabbrica della GKN che fanno delle aziende minacciate di delocalizzazione, chiusura, ristrutturazione dei centri promotori della lotta contro lo smantellamento dell’apparato produttivo del paese e come il CALP di Genova che bloccano i porti italiani al traffico di armi,

– organismi territoriali come i NO TAV della Val di Susa che impediscono o boicottano la realizzazione di grandi opere speculative di devastazione del territorio,

– organismi come il Movimento Disoccupati 7 Novembre e il Cantiere 167 di Napoli,

– organismi come Fridays For Future, Extinction Rebellion e Ultima Generazione,

– come i Comitati per l’Acqua Pubblica, i comitati per la casa e altri,

coordinati tra loro e orientati a costituire un governo d’emergenza di loro fiducia, per rendere ingovernabile il paese dai vertici della Repubblica Pontificia e costringerli a ingoiare (provvisoriamente nei loro propositi) un governo d’emergenza. Due sono le strade possibili.

a) Pensiamo alle “accampate” promosse negli anni passati dai coordinamenti No Debito, Eurostop, No Monti Day e simili, però organizzate in un contesto in cui 1. un certo numero di organismi operai e popolari agiscono da nuove autorità pubbliche e 2. i personaggi di loro fiducia si sono costituiti in un organismo (in passato lo abbiamo chiamato comitato di salvezza o di liberazione nazionale, ma quello che conta è la sostanza, non il nome) che nega ogni legittimità del governo in carica e il suo diritto a governare, che lotta per affermarsi come governo legittimo del paese in nome degli interessi delle masse popolari, che assume di rappresentare, e che sono calpestati dal governo in carica (quindi un organismo costituto non per contrattare e rivendicare al governo in carica, ma con l’obiettivo di cacciarlo e di mobilitare le masse popolari a sviluppare su scala crescente tutte le iniziative di cui sono capaci, fino alla vittoria). In una situazione del genere, se proprio serve, possiamo anche indurre un Parlamento formato da gente in vendita al miglior offerente ad avallare un governo composto da persone designate dalle organizzazioni operaie e popolari.

b) Un’altra strada è quella che ha fatto il M5S da noi nel 2018 e Syriza in Grecia nel 2015: stante l’avanzare della crisi del sistema politico, una coalizione anti Larghe Intese si afferma alle elezioni e riesce ad andare al governo. Se ha a che fare con organismi come il Collettivo di Fabbrica della GKN, organizzati e con iniziativa, difficilmente potrà prescindere da essi, dalle loro rivendicazioni, dai decreti anti-delocalizzazione e dai piani per la mobilità sostenibile che presentano. Anziché calare le braghe, come hanno fatto sia il M5S sia Syriza, dovrà avanzare. Non vuol dire che al GBP si arriva attraverso le elezioni: quello che fa la differenza non è la vittoria alle elezioni, ma l’esistenza di un certo numero di organizzazioni operaie e popolari, il loro coordinamento e il loro orientamento a prendere in mano le sorti del paese costituendo un proprio governo d’emergenza.

La possibilità di imboccare una di queste due strade si è presentata più volte nel nostro paese, in particolare nel 2010 con il movimento messo in moto dalla resistenza degli operai di Pomigliano al piano Marchionne ed esteso a livello nazionale dall’iniziativa della FIOM e nel 2018 con la breccia aperta nel sistema politico delle Larghe Intese con l’affermazione del M5S” – dalla Dichiarazione Generale in discussione al VI Congresso del P.CARC.

Fonte: Partito dei CARC (Comitati di Appoggio per la Resistenza del Comunismo)

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università degli Studi di L’Aquila

CALENDARIO 2023 DEL PARTITO DEI CARC

Tutti i soggetti debbono pensare in “collettivo”, affrontando con severa disciplina il conflitto (la vita è lotta, l’educazione è lotta, bisogna abituarsi anche al sacrificio personale) e organizzando la vita in comune, che può autoregolarsi solo con un alto senso di responsabilità che può svilupparsi da una prospettiva sociale di liberazione collettiva. Anton Semenovyč Makarenko

Il nuovo calendario dei Partito dei CARC, i Comitati di Appoggio per la Resistenza del Comunismo https://www.carc.it/calendario-2023/

Formato A3 con copertina e pagine interne a colori. Puoi ordinarlo a carc@riseup.net Costo € 10,00.

Costo spedizione per uno o più calendari con corriere: € 6, consegna in 3/5 giorni.

  ATTENZIONE: le spedizioni saranno effettuate dal 5 dicembre 2022  

Puoi acquistare il calendario con un versamento su:

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Ricordati di scrivere via mail a carc@riseup.net per ordinare il calendario e indicare l’indirizzo di spedizione, qualunque sia il metodo di pagamento prescelto.

Fonte: Partito dei CARC (Comitati di Appoggio per la Resistenza del Comunismo)

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università di L’Aquila e tecnico sportivo CSEN Abruzzo

RESISTENZA N.4/2022

https://www.carc.it/

Quando la storia bussa alla porta

Editoriale

Quando nel 1991 è arrivato a conclusione il processo di dissoluzione dell’URSS, la borghesia imperialista annunciava sguaiatamente la fine della storia – intesa come fine dell’epoca della lotta di classe – e prometteva pace e prosperità nel mondo “liberato dal pericolo del comunismo”. Bluffava.

Chi oggi ha sessant’anni ha vissuto sulla sua pelle cos’ha significato promuovere e partecipare alla lotta di classe in un contesto in cui il movimento operaio era poderoso perché sospinto da un movimento comunista forte in Italia e nel mondo. In un contesto in cui la classe dominante tremava al rischio concreto della rivoluzione socialista.

A questo va aggiunto che dal 1945 al 1975 il movimento economico della società è stato caratterizzato da una fase di accumulazione del capitale (dopo le distruzioni della Prima e Seconda Guerra Mondiale) e ciò ha voluto dire che “l’economia tirava”. Pertanto, sotto l’incalzo del movimento operaio e popolare e per timore della rivoluzione socialista, i padroni erano “disposti” e costretti a cedere parte dei loro profitti sotto forma di riconoscimento di diritti, tutele, benessere diffuso per le masse popolari.

Chi è nato dopo gli anni Ottanta, al contrario, non ha mai vissuto un’esperienza simile. La conosce solo attraverso la narrazione distorta che di essa fa la classe dominante; vive in un contesto opposto, vive una vita per tanti versi opposta.

Tocca però con mano il decadimento generale della società, le conseguenze del disastro ambientale e climatico, vede il degrado materiale e morale che il capitalismo impone alle masse popolari di tutto il mondo. Riconosce l’ipocrisia dei richiami alla pace, alla democrazia, ai diritti umani sbugiardati dal massacro della popolazione civile nei paesi aggrediti dalla NATO, dalla persecuzione degli immigrati, dallo sfruttamento dei lavoratori degli stessi paesi imperialisti, trattati sempre più come carne da macello in nome del profitto.

Cos’è successo fra gli anni Settanta e gli anni Duemila?

In forme diverse è successo esattamente quello che aveva previsto Stalin nel 1926.

Durante un discorso al Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista, disse: “Cosa succederebbe se il capitalismo ce la facesse a distruggere la Repubblica dei Soviet? Comincerebbe un’era caratterizzata dalla più nera reazione in tutti i paesi capitalisti e coloniali, la classe lavoratrice e i popoli oppressi sarebbero presi per la gola, le posizioni del comunismo internazionale sarebbero perse”.

Nel 1953 Stalin è morto e alla direzione del movimento comunista sovietico e internazionale si sono installati, dal 1956, i revisionisti moderni capeggiati da Kruscev. Dal 1956 l’URSS non è più la base rossa della rivoluzione proletaria mondiale e, anzi, i revisionisti moderni hanno iniziato una lenta, graduale e pacifica restaurazione del capitalismo. Un processo che si è concluso nel 1991.

Con la dissoluzione dell’URSS è effettivamente iniziata una fase di “nera reazione” a livello mondiale.

In tutti i paesi imperialisti l’attacco ai diritti e alle conquiste dei lavoratori e delle masse popolari è stato progressivamente intensificato, i lavoratori dei paesi imperialisti e i popoli dei paesi oppressi sono stati “presi per la gola” e le posizioni del movimento comunista internazionale “sono state perse”.

Che significa? Significa che la grande maggioranza dei partiti comunisti si sono dissolti e disgregati in tutto il mondo; che molti ex paesi socialisti sono diventati terra di conquista per la Comunità Internazionale degli imperialisti e alcuni di essi (Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese) sono diventati suoi concorrenti, ostacolandone le mire espansionistiche. Vuol dire che non esiste più una base rossa della rivoluzione proletaria mondiale e che la tendenza alle guerre di aggressione imperialista ha fatto un enorme balzo in avanti.

Oggi la storia bussa alle nostre porte e ci porge il riassunto degli ultimi 30 anni. È un bilancio intriso di sangue.

La guerra “nel cuore dell’Europa” – che oggi scandalizza i finti pacifisti filo NATO – è iniziata nel 1991, quando la Comunità Internazionale degli imperialisti si è spartita a forza di bombardamenti ed eccidi la Jugoslavia. È proseguita nel 1999, quando la NATO ha raso al suolo la Serbia e ha avvelenato il territorio con l’uranio impoverito. Torna oggi in modo dispiegato in Ucraina, per le mire espansionistiche della NATO, ma nel frattempo ha fatto “il giro del mondo”: ha devastato l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria, il Libano, lo Yemen, vari paesi africani.

In ogni paese imperialista, compreso il nostro, assistiamo da anni a una vera e propria “guerra di sterminio non dichiarata” contro le masse popolari che provoca decine di migliaia di vittime: incidenti e morti sul lavoro, malasanità, inquinamento, il dilagare della droga e delle violenze sessuali, la pedofilia del Vaticano, gli sfratti, il carovita, ecc.

Trent’anni senza l’URSS sono stati pessimi. La borghesia imperialista bluffava.

Se per chi ha più di sessant’anni gli effetti della “perdita” dell’URSS spingono alla nostalgia e al rimpianto dei bei tempi in cui il movimento comunista era forte, per chi ha meno di quarant’anni “l’assenza” dell’URSS, di una base rossa della rivoluzione proletaria mondiale e la debolezza del movimento comunista, spingono allo smarrimento.

Eppure questo mondo va cambiato. La storia bussa alla porta. Non dobbiamo aver paura di aprire. Il movimento comunista è ancora debole, ma sta rinascendo. Gli ultimi trent’anni non sono stati segnati solo da distruzione, sangue e nostalgia di un passato che non può tornare…

C’è un bilancio. Abbiamo fatto un bilancio della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale per ricavarne insegnamenti necessari a promuovere la seconda. C’è voluto parecchio tempo (più di trent’anni) per renderlo organico, per individuare i limiti e gli errori che hanno portato il vecchio movimento comunista ad esaurirsi, in modo da non ripeterli, e per elaborare una strategia e una tattica adeguate alla fase. Mettiamo questo bilancio a disposizione di tutti coloro – settantenni, quarantenni o quindicenni che siano – che vogliono conoscerlo e usarlo per trasformare il mondo.

C’è una spinta. Indipendentemente dal fatto che essa sia più o meno evidente, milioni di persone premono per dare soluzione al corso disastroso che la classe dominante impone al mondo, ai suoi effetti e alle sue cause. Ci sono milioni di persone che hanno perso ogni fiducia nella classe dominante, nelle sue istituzioni e nelle sue autorità, ma non sanno ancora cosa fare e come fare, cercano direzione. I comunisti devono diventare interpreti di questa spinta, devono alimentarla, amplificarla, ma soprattutto orientarla e dirigerla.

Ci sono le forze. Il movimento comunista è debole, è stato il convitato di pietra al tavolo del progresso e dell’emancipazione umana degli ultimi trent’anni, ma è altrettanto vero che la lotta di classe non è mai finita e non può finire finche il modo è diviso in classi di sfruttati e sfruttatori.

Diceva Mao “avere una qualche esperienza di lotta di classe è quello che io chiamo università”. Ebbene, la crisi generale ha spinto molti settori delle masse popolari, molti lavoratori, molti operai a diventare studenti di questa università. Altri lo faranno. Alcuni sono di più lungo corso, altri sono appena arrivati, ma tutti sono spinti a imparare e a insegnare; hanno voglia e necessità di avanzare. Verso cosa?

C’è un obiettivo. Avanzare nella la rivoluzione socialista. Il fatto è che mentre rovesciamo il mondo dei padroni, nello stesso tempo dobbiamo costruire la società diretta dai lavoratori e dalle masse popolari organizzate che ne saranno la nuova classe dirigente. Dobbiamo fare dell’Italia un nuovo paese socialista.

Quando la storia bussa alla tua porta non annuncia la rivoluzione che scoppia, ti avverte che devi metterti in moto per farla, ti chiama, ti vuole.

Unisciti al movimento comunista che rinasce, unisciti alla Carovana del (nuovo)PCI, aderisci al Partito dei CARC, i Comitati di Appoggio per la Resistenza del Comunismo.

Il nemico è in casa nostra e sta al governo: organizzare ovunque la nuova resistenza

Le Larghe Intese promuovono da decenni il revisionismo storico, la manipolazione dell’informazione e l’intossicazione delle coscienze senza limiti di mezzi e risorse.

Per cercare di mantenere il potere travisano la realtà senza ritegno: i loro lacchè non hanno rispetto neppure per sé stessi. Un esempio? Prendete Benigni: nel film La vita è bella racconta che l’esercito americano libera gli ebrei dal campo di concentramento di Auschwitz, ma la verità storica è tutt’altra. È stata l’Armata Rossa a entrare per prima ad Auschwitz.

Vedete, i militanti del revisionismo storico non si fanno scrupoli: sono ben pagati dalla classe dominante per riscrivere e distorcere il passato perché, come recita un caposaldo della propaganda nazista, “una bugia ripetuta mille volte diventa una verità”.

Da anni le celebrazioni del 25 Aprile sono campo di battaglia per i lacchè della falsificazione storica, in particolare a Milano. Per la prima volta nel 2004 hanno sfilato nel corteo del 25 Aprile le bandiere sioniste dello Stato di Israele: un piccolo drappello che da allora si è andato via via ingrossando fino a diventare uno degli spezzoni principali della manifestazione istituzionale.

Il cappello sionista sulle celebrazioni della Liberazione è stato definitivamente messo da quando il servizio d’ordine del PD, della Cgil e delle varie organizzazioni sioniste italiane hanno iniziato a provocare tutti gli altri manifestanti e ad aggredire, protetti da cordoni di Celere e Carabinieri, chi contesta il sionismo. Chi porta le bandiere della Palestina viene assalito, denunciato e processato.

È facile profeta chi prevede che questo 25 Aprile 2022 l’asticella della vergogna si alzerà. Alle bandiere sioniste si aggiungeranno quelle dell’Ucraina e della NATO, che sventoleranno accanto ai tricolori e alle bandiere della pace: saranno la testa di ponte di una nuova, grande, operazione di intossicazione e manipolazione delle coscienze.

Ma perché le Larghe Intese si accaniscono così tanto contro il 25 Aprile?

È sufficiente una sintesi di poche righe dei fatti salienti accaduti in 5 giorni a Milano, nel 1945, a spiegarlo.

Il testo che segue è il riadattamento e la sintesi di una pubblicazione a cura dell’Archivio dell’Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – ISEC

“Alle 7 del mattino del 24 aprile, il comando delle Brigate partigiane d’assalto impartisce l’ordine di insurrezione generale per il giorno dopo, alle 14. Dalle 8:30 l’ordine arriva a tutta la città e in provincia attraverso le staffette. Alle 10 il comando delle Brigate Garibaldi dispone il piano di difesa delle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni: alla Breda e alla Pirelli gli operai devono formare un unico distaccamento che sarà il baluardo della mobilitazione operaia, alla Ercole Marelli, Magneti Marelli e Falck saranno raccolti anche gli operai delle fabbriche più piccole e tutti i cittadini volontari. Il Comando dei Carabinieri di Sesto ha comunicato al CLN la disponibilità a collaborare con i partigiani e il Commissariato di Polizia ha annunciato che gli agenti si faranno disarmare senza opporre resistenza.

Dalle 11:30, nel quartiere di Niguarda iniziano sporadici scontri a fuoco fra i partigiani e i fascisti. Gli scontri si intensificano nel corso della giornata e sfociano a sera nell’occupazione del comando repubblichino da parte delle forze partigiane: Niguarda è il primo quartiere di Milano a essere liberato.

Poco prima di mezzogiorno, il Comitato insurrezionale proclama per il giorno dopo lo sciopero insurrezionale per tutto il Nord Italia.

Il 25 aprile, alle 8 del mattino, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) si riunisce nel collegio dei salesiani, elegge Rodolfo Morandi come presidente, approva il decreto per l’assunzione dei pieni poteri da parte del CLNAI, dei CLN regionali, provinciali e cittadini e quello che assegna ai Consigli di Fabbrica il controllo sulla produzione.

Con appositi decreti vengono nominate le Commissioni di giustizia e le corti giudicanti. Viene redatto un comunicato che sarà trasmesso a ripetizione dalla radio: è stabilita la pena di morte per i membri del governo fascista e per gli alti gerarchi, è previsto l’ergastolo per i fascisti responsabili di reati meno gravi.

Alle 12, i partigiani della Pirelli di Sesto San Giovanni irrompono nel Comando nazista presente in fabbrica, il Comandante viene ucciso, due nazisti vengono feriti e due vengono arrestati. È l’inizio dell’insurrezione armata a Sesto San Giovanni, ma l’insurrezione intanto dilaga in tutta la provincia.

Alle 19 Mussolini scappa dalla Prefettura di Milano con l’intenzione di rifugiarsi in Svizzera.

Il 26 aprile escono le prime edizioni dei giornali senza censura e danno notizia dell’insurrezione. Per tutto il giorno continuano combattimenti che si protraggono anche il 27 e il 28 aprile, ma già nel pomeriggio il centro di Milano è in mano ai partigiani. Il 26, 27 e 28 aprile confluiscono in città i gruppi e le brigate del resto della Lombardia e della Valsesia.

Il 28 aprile Mussolini viene catturato e giustiziato a Dongo. Milano è liberata, il fascismo è caduto, Mussolini è morto, i nazisti sono cacciati.

Il 29 aprile arrivano a Milano le truppe americane”.

Basta anche una lettura superficiale per comprendere l’interesse della classe dominante a nascondere il carattere insurrezionale della liberazione di Milano: si trattò un’insurrezione armata e ciò contraddice palesemente la propaganda che oggi va per la maggiore sull’unità nazionale.

Non è vero che “siamo tutti sulla stessa barca”: non lo è oggi come non lo era neppure nel 1945, quando da una parte ci stavano i partigiani, gli operai e le masse popolari dirette dai comunisti e dall’altra ci stavano i padroni, i gerarchi fascisti, le Camicie Nere e i nazisti. Ma non è tutto.

Questa breve ricostruzione storica mostra anche altro.

Mostra che i partigiani, gli operai e le masse popolari hanno liberato Milano “da soli”, senza il sostegno dell’esercito americano, che è arrivato nella città a cose fatte. Fa vedere che la polizia e i Carabinieri non si sono opposti all’insurrezione – e anzi in qualche caso hanno partecipato direttamente – perché i partigiani, la classe operaia e le masse popolari, con il CLN, avevano assunto il controllo della città e del territorio.

Insegna che la Liberazione è stata possibile grazie a un intenso lavoro preparatorio e che, anzi, il lavoro preparatorio fu molto più importante – fu decisivo – della stessa insurrezione armata perché mentre veniva abbattuto il sistema di potere fascista bisognava sostituirlo con un nuovo sistema di potere dal quale dipendeva non solo l’esito delle operazioni militari, ma la gestione della città, del territorio, della produzione e distribuzione di beni e servizi, il soccorso alla popolazione.

Ecco la verità che la classe dominante vuole nascondere. Ecco cosa vuole estirpare dalla memoria collettiva e seppellire sotto un cumulo di menzogne e manipolazioni. Perché se nell’insurrezione di Milano del 25 Aprile 1945 distinguiamo l’aspetto militare (che attiene alla tattica ed è determinato da condizioni particolari e specifiche) da quello politico (che invece riguarda la strategia), in quella memoria collettiva da difendere ci sono molti insegnamenti da riprendere, validi oggi.

Il primo è che per cacciare le forze occupanti del nostro paese – se ieri erano i nazisti e i fascisti, oggi sono la NATO, la UE e il Vaticano – è necessario costruire una rete di potere alternativo per far funzionare le aziende, i servizi, i trasporti, le scuole, gli ospedali, ecc. senza la direzione dei funzionari delle forze occupanti, ma attraverso il controllo diretto dei lavoratori e delle masse popolari. Questa rete di potere alternativo è costituita da organismi operai e popolari che si formano e operano in ogni azienda, in ogni quartiere e in ogni zona.

Un secondo insegnamento è che la rete di organismi operai e popolari deve fare capo a una struttura simile al CLN (un nuovo CLN), composto da esponenti in cui le masse popolari ripongono già la loro fiducia, revocabili se la tradiscono o vengono meno all’impegno di rafforzare la rete degli organismi operai e popolari.

La combinazione del movimento dal basso determinato dagli organismi operai e popolari con quello dall’alto determinato dal nuovo CLN è il cuore della nuova liberazione nazionale.

Far battere questo cuore, renderlo capace di portare sangue e ossigeno a tutti gli organi del nuovo potere, è il compito che noi del P.CARC ci siamo assunti.

Dovrebbe risultare ora più chiaro ai nostri lettori che tutti i tentativi della classe dominante di riscrivere la storia, di manipolare l’opinione pubblica, di intossicare le coscienze dei lavoratori e delle masse popolari hanno l’obiettivo di impedire o almeno ostacolare questo percorso.

Un percorso che la classe operaia e le masse popolari del nostro paese hanno già fatto, che vive nella memoria collettiva, che è entrato nel loro modo di pensare, nel senso comune. E per estirparlo occorre la violenza.

Quella con cui le Larghe Intese impongono la brigata sionista alle celebrazioni del 25 Aprile, come se ci potesse essere un legame fra i crimini che i sionisti compiono contro il popolo palestinese e la guerra di Liberazione dell’Italia dal nazifascismo.

La violenza con cui impongono il sostegno al governo ucraino, come se potesse esserci il benché minimo termine di paragone tra i battaglioni nazisti che combattono per la NATO e le Brigate partigiane. La violenza con cui la classe dominante costringe i lavoratori e le masse popolari a vivere sottomessi alla NATO, alla UE, a Confindustria e al Vaticano.

Draghi e il suo governo, servi della NATO e della UE, trascinano il paese in guerra. Devono essere cacciati.

I lavoratori e le masse popolari organizzate possono vincere ancora, come hanno vinto contro i fascisti e i nazisti nel 1945.

Organizzare ovunque la nuova resistenza.

Organizzarsi ovunque in organismi operai e popolari che prendono in mano le aziende, le scuole, i quartieri e le città.

Nominare ovunque rappresentanti e delegati – revocabili in ogni momento – per costituire i CLN di zona.

Non aspettare che le conseguenze delle politiche criminali dei criminali che stanno al governo diventino irreparabili! Organizziamoci per prendere il potere!

Draghi e il suo governo devono essere cacciati
I lavoratori e le masse popolari organizzate possono vincere ancora, come hanno vinto contro i fascisti e i nazisti nel 1945. Organizzare ovunque la nuova resistenza. Nominare ovunque rappresentanti e delegati per costituire i CLN di zona. Non aspettare che le conseguenze delle politiche criminali dei criminali che stanno al governo diventino irreparabili! Organizziamoci per prendere il potere!

Se gli operai scrivono il piano per riaprire la fabbrica

Le Larghe Intese governano il paese principalmente perché la rete del nuovo potere delle masse popolari non è ancora sviluppata e organizzata a un livello tale da soppiantarle.

Questo significa che per dare seguito pratico alle tante aspirazioni di cambiamento del paese, la questione principale è rafforzare la rete di organismi operai e popolari, costituirne di nuovi dove ancora non esistono e coordinarli tutti affinché ognuno faccia la propria parte nella gestione di quelle attività che la classe dominante manda in malora perché, anche utilizzandole al meglio, non le porterebbero tutti i profitti che ricava dalle speculazioni.

Nel nostro paese ci sono già una miriade di organismi che si pongono l’obiettivo di far funzionare ciò che non funziona, di salvare le aziende dalle chiusure e dalle delocalizzazioni, di rendere fruibili beni e servizi che con le privatizzazioni sono diventati merce (dalla sanità all’acqua pubblica, dall’istruzione ai trasporti, ecc.). Ognuno di essi dimostra in piccolo che le masse popolari organizzate possono fare meglio della classe dominante, in primo luogo perché ne hanno l’interesse e la volontà.

Ognuno di essi, può essere il primo ingranaggio della struttura via via più estesa (a livello provinciale, regionale e poi nazionale) su cui poggia il nuovo potere del governo di emergenza popolare.

Su Resistenza facciamo spesso da alcuni mesi l’esempio degli operai della GKN di Firenze. Non solo perché la loro lotta contro la chiusura della fabbrica è un’esperienza da cui possono trarre spunti e insegnamenti tutti i lavoratori e, più in generale, tutte le masse popolari, ma anche perché questi operai guardando oltre il loro obiettivo particolare hanno tracciato un sentiero che può – e deve – diventare una strada.

Lo scorso 11 marzo hanno presentato il loro piano per un Polo Pubblico per la Mobilità Sostenibile, scritto con il contributo della rete di economisti della Scuola Superiore Sant’Anna e di ricercatori di altre università. Un piano ragionato che permetterebbe sia la riconversione dello stabilimento – e quindi la piena ripresa del lavoro per gli operai – sia la produzione di semiassi destinati a un trasporto pubblico ed ecologico (il cui sviluppo è nell’interesse delle masse popolari). Un piano, quindi, che parte da un bisogno reale per andare oltre, che ripensa l’intero settore l’automotive.

È un esempio “in piccolo” di ciò che è possibile fare “in grande” per mettere mano agli effetti più gravi della crisi. Ma l’aspetto principale della questione non è tanto la giustezza o “fattibilità” dei piani che le masse popolari elaborano dal basso. L’aspetto decisivo è lottare per imporli.

Gli operai GKN dicono che per attuare il loro piano serve cambiare i rapporti di forza nel paese. Questo è vero, ma il ragionamento deve essere dialettico: quanto più cambiamo i rapporti di forza tanto più sarà possibile realizzare i piani elaborati dalle masse popolari, ma i rapporti di forza tra le classi si ribaltano tanto di più quanto più le masse popolari lottano per imporre le loro soluzioni!

“Ma non ce lo lasceranno fare” diranno molti. Sicuro, la classe dominante farà di tutto per impedirlo. Ma se i cambiamenti politici e sociali dipendessero dall’assenso della classe dominante saremmo ancora all’età della pietra!

Gli operai GKN hanno ottenuto il ritiro dei licenziamenti perché hanno occupato la fabbrica, di certo senza chiedere il permesso alla direzione aziendale. Hanno potuto costruire la manifestazione nazionale del 26 marzo che ha visto scendere in piazza “la nuova classe dirigente del paese” perché hanno guadagnato autorevolezza tra i lavoratori e le masse popolari.

Ovvio, il Collettivo di Fabbrica GKN ha aperto una strada, ha dimostrato che è possibile ribaltare decisioni già scritte di fondi finanziari internazionali con la forza degli operai e del territorio. Ma da sola questa esperienza non basta nemmeno a sé stessa. Se la GKN rimane un unicum nel paese, come dicono gli stessi operai, non riuscirà a cambiare i rapporti di forza e nemmeno a riaprire la fabbrica.

Occorre quindi che le masse popolari da un capo all’altro dell’Italia imbocchino la stessa strada in ogni ambito, dal più grande al più piccolo, dalle aziende ai quartieri; serve che in ogni luogo si formino e sviluppino organizzazioni che si riuniscono, che fanno piani, che si coordinano con le altre realtà e che cominciano ad attuare su scala ridotta quello che vogliono fare in grande! È così che si guadagnano posizioni, è così che si ribaltano i rapporti di forza.

È necessario che le forze che devono soppiantare quelle della classe dominante siano schierate e organizzate, attive e in reciproca relazione fra loro.

Le posizioni di forza guadagnate vanno sviluppate affinché diventino forza dirigente, affinché siano le masse popolari a decidere cosa e quanto devono produrre le aziende, ad assegnare un lavoro dignitoso a tutti, a riorganizzare la distribuzione delle risorse, le relazioni politiche, economiche e sociali del paese. Questo vuol dire prendere in mano il governo del paese!

Per salvare il paese serve un piano. Non è la lista delle buone intenzioni, né l’elenco di “ciò che bisognerebbe fare”, ma è la somma (momentaneamente) disordinata e contraddittoria dei tanti piccoli piani che si danno gli organismi operai e popolari. Dalla loro attuazione passa il ribaltamento dei rapporti di forza.

Si può fare!

I primi soviet vennero costituiti in Russia nel fuoco delle battaglie rivoluzionarie del 1905 (i principali a Pietroburgo, Mosca, Kharkov). Inizialmente erano né più né meno che dei comitati di lotta sorti per dare una direzione comune alle rivendicazioni disorganizzate dei lavoratori. Il primo soviet si formò nel maggio 1905 a Ivanovo-Voznesensk (distretto tessile di Mosca), i suoi obiettivi (la sua piattaforma rivendicativa) erano: l’abolizione del lavoro notturno e del lavoro straordinario, un salario mensile minimo, l’abolizione della “polizia di fabbrica”, la libertà di parola e di riunione per gli operai. Esso era formato da un centinaio di delegati (eletti tra e dagli operai delle fabbriche del distretto) e aveva il compito di dirigere lo sciopero, impedire trattative separate e il crumiraggio, mantenere l’ordine e rafforzare l’organizzazione tra gli operai.
La sconfitta della rivoluzione del 1905 portò con sé lo scioglimento dei soviet, l’arresto in massa dei loro dirigenti e la loro messa fuorilegge.
Nel febbraio del 1917 tornarono sulla ribalta della scena politica, tanto che il 22 marzo il ministro della guerra del governo provvisorio presieduto da Kerenskij scriveva che “il governo provvisorio non possiede un potere reale, i suoi ordini sono eseguiti solo per quel tanto che è permesso dal soviet degli operai e dei soldati, che ha in mano gli elementi più importanti del vero potere, cioè i soldati, le ferrovie, il servizio postale e telegrafico. Si può dire in forma più netta che il governo provvisorio esiste solo in quanto il soviet glielo permette. Specialmente in materia militare gli ordini che si possono dare non devono essere fondamentalmente in conflitto con le deliberazioni del suddetto soviet” – da “Tutto il potere ai soviet” su Resistenza n. 4/2014

“Con la nostra lotta siamo stati in grado finora di salvare la continuità occupazionale e dei diritti. Non siamo riusciti a salvare però la continuità produttiva, perché è impossibile pensare di salvare la singola unità produttiva in un settore come l’automotive senza un intervento complessivo. In pratica non era possibile salvare la produzione di semiassi a Campi Bisenzio senza ripensare l’automotive in Italia. Per questo abbiamo proposto una riconversione all’interno del polo pubblico della mobilità sostenibile”- Dario Salvetti, delegato RSU GKN.

Guerra in Ucraina – Contro la confusione, nessuna equidistanza

Bisogna porsi concretamente la questione di prendere in mano il governo del paese per liberarlo dalle forze occupanti, dalla NATO, dalla UE, dal Vaticano. Se ci mettiamo in quest’ottica emerge tutta l’inconsistenza dell’equidistanza (né con la Russia né con la NATO). Come sarà possibile far fronte all’aggressione e al boicottaggio della Comunità Internazionale se non instaurando rapporti di solidarietà, reciproca collaborazione e scambio con i governi dei paesi che vi si oppongono? Con il governo di Cuba, del Venezuela, dell’Iran della Corea del Nord, ecc…

Già il nome, “guerra in Ucraina”, è fuorviante. Effettivamente il territorio del conflitto armato è ucraino e ucraina è la maggioranza della popolazione civile che lo subisce (ci sono anche russi, rumeni e altre minoranze più o meno consistenti), ma a combattere sul campo – e non da ora – non c’è tanto “l’esercito ucraino” quanto i battaglioni di mercenari neonazisti (Azov, Aidar, Dnipro 1, Dnipro 2 e altri minori) addestrati dalla NATO fin dal 2006, che usano armi della NATO e della UE per difendere il sistema politico imposto con il colpo di Stato del 2014 (vedi articolo “Nessuna giustificazione per l’attendismo” a pag. 11) e per massacrare la popolazione del Donbass e della Crimea in rivolta contro di esso: 14mila morti in sette anni.

In Italia, la propaganda di regime fa letteralmente carte false per presentare l’esercito ucraino alla stregua dei partigiani della Resistenza che hanno sconfitto il nazifascismo, ma non c’è niente che giustifichi un simile accostamento. La Resistenza fu effettivamente una guerra di liberazione condotta dalla classe operaia e dalle masse popolari dirette dal Partito Comunista; in Ucraina, al contrario, i battaglioni neonazisti combattono per far diventare il paese un avamposto della NATO nella guerra contro la Federazione Russa.

Quindi no, Zelensky non può essere neppure lontanamente paragonato ad Allende, come invece hanno fatto i giornali italiani, così come il battaglione Azov non ha niente a che spartire con le Brigate Internazionali che raccolsero combattenti da tutto il mondo contro il fascismo in Spagna: ne è, anzi, l’opposto.

Che una “cantante” ucraina abbia stravolto Bella ciao in un canto nazionalista, guerrafondaio, xenofobo e reazionario è solo la dimostrazione del livello infimo raggiunto da questa messinscena. Ma del resto ne vediamo di tutti i colori.

Bandiere della pace accanto ai simboli nazisti, bandiere della pace sostituite da quelle ucraine che sventolano sotto il maxischermo attraverso cui il presidente fantoccio Zelensky arringa la folla “pacifista” (raccolta dal PD a Firenze il 13 marzo) per chiedere più armi, più guerra, per giustificare il macello verso cui manda il popolo ucraino per servire gli interessi degli imperialisti USA.

Nel mondo alla rovescia costruito dai media per intruppare le masse popolari a favore del governo fantoccio ucraino, politicanti di ogni tipo (da Di Maio a Roberto Fico, da Salvini a Meloni) assieme a nuovi e vecchi tromboni (come Manconi) sgomitano per prendersi la scena. In molti casi sono gli stessi che negli ultimi trent’anni hanno contribuito, attivamente o da spettatori, allo smantellamento dei diritti e delle conquiste dei lavoratori e delle masse popolari italiane così come alle tante “missioni umanitarie” che hanno raso al suolo interi paesi; sono quelli che hanno permesso ai sionisti di fare ai palestinesi quello che i nazisti facevano contro gli ebrei; sono gli stessi che hanno accusato di terrorismo il popolo basco, il popolo corso, afgano, iracheno o curdo. Tutti oggi si fanno paladini di giustizia, invocano la guerra e rivendicano la giustezza morale della resistenza armata in Ucraina.

Operazione verità

Non è vero che tutte le guerre sono uguali. È vero invece che esistono guerre giuste. Sono quelle combattute dalla classe operaia e dalle masse popolari contro la classe dominante del proprio paese; sono quelle combattute dalle masse popolari dei paesi oppressi contro le forze occupanti; sono quelle combattute dai governi dei paesi che non si sottomettono e resistono alle aggressioni politiche, economiche, commerciali e militari della Comunità Internazionale degli imperialisti (USA, sionisti, UE e Vaticano).

La propaganda di regime fa carte false per convincere le ampie masse popolari del nostro paese (e di ogni altro paese imperialista) che “la resistenza ucraina” è giusta, ma non è così.

Il governo fantoccio dell’Ucraina si è reso strumento della Comunità Internazionale degli imperialisti per attaccare la Federazione Russa (e la Repubblica Popolare Cinese), sta facendo massacrare il popolo ucraino e tutte le minoranze presenti nel paese, conduce una guerra ingiusta.

Nessuna equidistanza

I lavoratori e le masse popolari del nostro paese non hanno alcun interesse a mettersi al carro della classe dominante (e sostenere il governo ucraino e la NATO), ma non ce l’hanno neppure nel limitarsi “a tifare” per la Federazione Russa. Dobbiamo superare questo schematismo e dobbiamo rompere con la posizione “né con la Nato, né con la Russia” che porta acqua al mulino della NATO.

Non è la Russia ad avere impiantato ovunque nel nostro paese basi militari e arsenali nucleari.

Non è la Russia a occupare parte del nostro paese per usarlo come poligono di tiro, usando munizioni che devastano e inquinano il territorio.

Non è la Russia a pretendere che una fetta consistente del PIL italiano sia destinata alla NATO e alla corsa agli armamenti.

Non sono “gli oligarchi russi” a stringere il cappio delle speculazioni del debito pubblico attorno al collo delle masse popolari italiane.

Non sono “gli oligarchi” russi a speculare sulle fonti di energia e a causare l’aumento incontrollato delle bollette.

Pertanto, bando alle sciocchezze.

Che vuol dire “né con la NATO né con la Russia”? Che altro significa, se non equiparare chi saccheggia e devasta il nostro paese (e TUTTO il resto del mondo!!!) a chi resiste al saccheggio e alla devastazione del proprio paese?

“Ma la guerra l’ha scatenata Putin”, “La Russia non è un paese comunista”, “Putin è un corrotto, un dittatore”. A parte il fatto che la guerra l’ha scatenata la NATO, il resto è certamente vero. Ma non giustifica nessuna equiparazione!

Quando la NATO ha devastato la Serbia, nel 1999, la resistenza del governo serbo era giusta. Quando la NATO ha attaccato l’Afghanistan, nel 2001, la resistenza afgana era giusta (tanto giusta che nel 2021 i talebani hanno dato una sonora legnata agli USA). Così come lo era quella del governo iracheno nel 2003, del governo siriano dal 2011, del governo della Libia nel 2015. Così come è giusta la resistenza di Hamas nella Striscia di Gaza.

Scrivevamo nel 2020, sul numero 2 di Resistenza: “esprimere solidarietà e sostegno ai governi e alle masse popolari dei paesi oppressi che resistono alla Comunità Internazionale e ai loro esponenti e dirigenti è giusto: la loro resistenza rafforza oggettivamente la resistenza di tutte le masse popolari, anche di quelle dei paesi imperialisti. (…)

Sosteniamo ogni governo, ogni paese e le masse popolari di ogni paese che si ribellano alla Comunità Internazionale degli imperialisti UE, USA e sionisti e anzi riteniamo che un governo del nostro paese che faccia davvero gli interessi dei lavoratori debba avviare con loro relazioni di solidarietà e cooperazione.

La resistenza dei popoli oppressi ci parla del presente e del futuro: ci parla del presente poiché incarna la lotta contro la borghesia imperialista e ci dimostra che essa è possibile, ci parla del futuro perché incarna la necessità di un ordinamento mondiale superiore in cui ogni paese e ogni popolo vive in pace, prospera e collabora reciprocamente, ci parla in definitiva della necessità del socialismo.

L’ordinamento di cui c’è bisogno, è necessario essere chiari, non è il modello su cui si basano i paesi oppressi che resistono all’imperialismo! Non è quello iraniano, siriano, palestinese, ecc. Il più evoluto di quei modelli di società, nel migliore dei casi, si ispira alla democrazia borghese dei paesi imperialisti”.

Questo discorso vale oggi, a maggior ragione, per la Federazione Russa.

Respingere il tifo, problematizzare la guerra

Problematizzare la guerra in Ucraina significa non permettere che i lavoratori e le masse popolari vengano intruppati in una guerra sbagliata al servizio della NATO ma che, al contrario, dispieghino tutte le loro forze in una guerra che è giusta perché è nel loro interesse.

La guerra giusta che la storia ci pone di fronte è contro gli oligarchi di casa nostra (Agnelli/Elkann, Berlusconi, De Benedetti, Benetton, Briatore, ecc.) e i loro burattinai negli USA e nei paesi UE; contro i loro comitati d’affari (come Confindustria), le loro autorità e le loro istituzioni; contro i loro politicanti, i loro intellettuali e giornalisti, i loro nani, le loro ballerine e i loro cantanti.

Di fronte a questa guerra, noi non cerchiamo diversivi, chiamiamo gli elementi d’avanguardia della classe operaia e delle masse popolari a organizzarsi per combatterla. Perché non c’è alternativa. Questa è la nuova normalità (vedi articolo). Queste sono le condizioni per la nuova liberazione nazionale di cui c’è bisogno.

Nuova normalità – Chi governa vuole riportarci indietro di cent’anni

Da quando si è esaurita la prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale, la classe dominante manovra per portare indietro l’orologio della storia e fare piazza pulita dei diritti e delle conquiste delle masse popolari.

La pandemia ha fornito l’occasione per portare più a fondo questo processo, scaricando sui lavoratori gli effetti della crisi, imponendo sempre nuovi sacrifici venduti come misure necessarie per tornare “alla normalità”. Ma a più di due anni dall’inizio dell’emergenza sanitaria, è sotto gli occhi di tutti che quella narrazione era una bugia. Miseria, sfruttamento, guerra, crisi ambientale sono la normalità nella fase della crisi generale del capitalismo in cui viviamo.

Bando allora a ogni illusione! I lavoratori possono conquistare un futuro migliore solo con la rivoluzione socialista: non esiste nessuna normalità a cui tornare, ma abbiamo un nuovo mondo da conquistare!

Questi anni di pandemia hanno aggravato la crisi del capitalismo, alimentando in tutto il mondo la lotta di classe e lo scollamento tra masse popolari e classe dominante.

Se guardiamo al nostro paese, è stato un crescendo di proteste e mobilitazioni, con numerosi comitati, collettivi e coordinamenti che in questo periodo sono nati (come le brigate di solidarietà) o hanno assunto un ruolo superiore (come il Consiglio di Fabbrica dell’ex GKN), e con la sfiducia nelle istituzioni e nei media della classe dominante che non ha fatto che crescere.

In questa situazione, la classe dominante ha dovuto prendere delle contromisure. In particolare ha dovuto imbrogliare le carte per costruire un minimo di consenso attorno a una gestione della pandemia che è stata criminale. L’arma più efficace a questo scopo è stata il miraggio del “ritorno alla normalità”, che governo e media di regime hanno agitato sistematicamente per presentare ogni sacrificio imposto ai lavoratori, ogni limitazione dei diritti e delle libertà, ogni peggioramento delle condizioni di vita, come necessari per riconquistarla. Individuando ad ogni occasione un nemico verso cui deviare la rabbia delle masse popolari per una situazione che, nonostante le promesse, continuava a peggiorare, in cui era sempre più evidente che non sarebbe “andato tutto bene”. I runner, i giovani della movida, e soprattutto i no vax, sono stati di volta in volta il capro espiatorio verso cui indirizzare l’ira popolare, additandoli come l’ostacolo da rimuovere per conquistare il tanto agognato ritorno alla normalità.

Bene, dopo più di due anni di lotta alla pandemia è oramai sotto gli occhi di tutti in cosa consista questa nuova normalità tanto sbandierata: è la chiusura di decine di aziende, la perdita di migliaia di posti di lavoro, una sempre maggiore precarietà e arbitrio padronale; sono 4/5 morti al giorno sul lavoro, tra cui studenti minorenni che ci lasciano la pelle durante gli stage; è una sanità pubblica completamente allo sbando dopo decenni di tagli, che non è implosa completamente solo grazie al sacrifico di migliaia di lavoratori che la tengono ancora in piedi; è un’istruzione pubblica devastata da due anni di DAD, con il disagio psicologico tra i giovani che diventa un fenomeno di massa; è una crisi climatica sempre più grave, che sta già sconvolgendo la vita sull’intero pianeta; è il pericolo sempre più concreto di una guerra mondiale, con il connesso caro-carburante, caro-bollette, caro-vita.

Il tanto decantato ritorno alla normalità si è tradotto in peggiori condizioni di vita per le masse popolari, maggior arbitrio per la classe dominante, nuove e più gravi emergenze alle porte e una generale decadenza dell’intera società, che sembra riportare indietro l’orologio della storia di decenni, a dispetto delle belle promesse di Draghi.

Così da una parte il governo parla di transizione ecologica e inserisce la tutela dell’ambiente in Costituzione, mentre dall’altra progetta di riaprire le centrali a carbone per fare fronte agli effetti delle sanzioni alla Russia, facendo un ulteriore passo verso il disastro ambientale.

A parole si erge a fautore della pace, ma nei fatti manovra per portare in guerra il nostro paese, marciando a grandi passi verso una nuovo conflitto imperialista. Fa grandi discorsi sulla ripresa economica, ma poi si fa complice di licenziamenti, chiusure, delocalizzazioni in misura sempre più ampia.

Insomma, quella di un ritorno alla normalità è un’illusione che fa comodo solo alla classe dominante. Nella crisi generale del capitalismo in cui siamo immersi miseria, pandemie, guerre, eventi climatici estremi sono la normalità, la guerra dei padroni contro masse popolari è la normalità. Se non vogliono subirla, le masse popolari devono fare la loro guerra a modo loro: organizzarsi in ogni azienda, scuola, quartiere e territorio per prendere in mano il paese, cacciare il governo Draghi, imporre un governo popolare di emergenza e avanzare così nella rivoluzione socialista!

Corsica: “benvenuti in Donbass”

Centinaia di anni di oppressione francese e di repressione delle avanguardie di lotta indipendentiste, la crisi economica che affama le masse popolari (1 corso su 4 vive sotto la soglia di povertà e sono 25mila i disoccupati) e un contesto generale caratterizzato dallo sgretolamento del sistema politico dei paesi imperialisti, fanno della Corsica una polveriera sociale.

A completare l’opera ci si mette Macron che nel tentativo di raccogliere consensi sulla guerra in Ucraina promuove a spron battuto slogan come “sostenere la resistenza e l’indipendenza dei popoli” o “cacciare gli invasori stranieri”…. e così facendo si accende da solo la miccia sotto al culo.

La scintilla scatta il 2 marzo.

Nel carcere di Arles, nel Sud della Francia uno dei prigionieri politici dell’indipendentismo corso, Yvan Colonna, detenuto in regime di alta sorveglianza, viene aggredito e ridotto in fin di vita.

Parte l’ondata di mobilitazioni in tutta l’isola. Nei giorni successivi a Calvi e ad Ajaccio ci sono manifestazioni e scontri e viene incendiato il Palazzo di Giustizia. L’11 marzo, a Porto Vecchio, un reparto della gendarmeria nazionale viene assaltato e sempre ad Ajaccio, i lavoratori del Sindacatu travagliadori corsi (Stc) impediscono l’attracco di un traghetto francese proveniente da Tolone, con a bordo diversi agenti antisommossa. Le università e le scuole vengono occupate e diventano il centro promotore delle rivolte. Viene dato fuoco all’Ufficio delle Entrate e vengono occupati edifici pubblici nelle principali città dell’isola.

Il culmine degli scontri si raggiunge il 13 marzo a Bastia: sono settantasette i feriti tra i gendarmi e altrettanti quelli tra i manifestanti. Dal corteo di diecimila persone, aperto dallo striscione con la foto di Yvan Colonna che reca la scritta Statu francese assasinu, si stacca un gruppo di circa trecento giovani che assalta la Prefettura per cinque ore, lanciando seicentocinquanta bottiglie molotov. Le forze di polizia rispondono con granate, fumogeni e proiettili di gomma, ma le munizioni finiscono e la “gloriosa” Gendarmerie è costretta alla ritirata.

Dopo 10 giorni di tumulti, il governo francese è costretto a cedere. Un fallimento totale.

Il primo ministro francese Jean Castex dispone la revoca delle misure di massima sicurezza per Alain Ferrandi e Pierre Alessandri, indipendentisti condannati all’ergastolo, e il Ministero della Giustizia apre una commissione d’inchiesta sulla morte di Yvan Colonna. Il Ministro degli Interni Gérald Darmanin promette “contrattazioni di portata storica, che potrebbero portare all’autonomia della Corsica” e pochi giorni dopo lo stesso Macron ribadisce un’apertura da parte del governo francese. Niente di strano, considerando che si avvicina la fine del mandato per Macron e che le elezioni di Aprile rendono precaria la posizione del suo governo schierato apertamente per l’intervento in Ucraina al seguito della NATO. La questione corsa entra, quindi, nel teatrino della politica francese e diventa campo di battaglia elettorale. In Corsica intanto, non si festeggia, ma si preannunciano nuove mobilitazioni.

Esprimiamo la massima solidarietà al popolo corso.

Per l’autodeterminazione, avanti fino alla cacciata degli occupanti francesi!

 “Per fare la guerra, la classe dominante ha bisogno di mobilitare e intruppare parte delle masse popolari, ha bisogno del loro sostegno e della loro partecipazione attiva, che cerca elargendo promesse di vario tipo (prima fra tutte i benefici della ripartizione delle briciole dei proventi di guerra). Oggi la borghesia imperialista non ha nulla da promettere alle masse popolari e sicuramente non ha nulla da concedere loro. Anzi, è in grande difficoltà di fronte alla mobilitazione che le masse popolari conducono per far fronte agli effetti più devastanti della crisi e alla guerra di sterminio non dichiarata già dispiegata contro di loro.
La classe dominante non ha credito, non gode della fiducia delle ampie masse e non riesce a mobilitarle facilmente sul terreno di una guerra con “non è la loro”. La borghesia imperialista sa quali sono le condizioni in cui un’eventuale guerra imperialista inizia, ma non ha – né può avere – la benché minima certezza rispetto a come finirà (come dimostra tutta la storia del XX secolo e anche la recente, precipitosa, fuga degli USA dall’Afghanistan). La mobilitazione delle masse popolari è per l’azione della classe dominante la principale incognita e il principale deterrente”.
Lo abbiamo scritto sul numero scorso di Resistenza (“Guerra e rivoluzione”) e benché formalmente la rivolta corsa non abbia nessun legame diretto con la guerra in Ucraina, essa è una chiara dimostrazione di questo principio.

Ipocrisia: immigrazione, accoglienza e sfruttamento

I flussi migratori sono una delle conseguenze del corso disastroso che la borghesia imperialista impone al mondo.

Così come è impossibile fermare l’emigrazione dai paesi e dalle zone del mondo sottoposte alle “delizie” dell’oppressione imperialista, allo stesso modo non è possibile impedire l’immigrazione nei paesi imperialisti (o comunque nei paesi che offrono una prospettiva di vita migliore) di chi fugge dalla guerra, dalla miseria, dalla devastazione ambientale, dalle persecuzioni religiose, etniche e politiche.

La classe dominante sfrutta i flussi migratori in molti modi.

In Italia sono diventati un affare da miliardi di euro sia per chi gestisce il traffico degli esseri umani dell’immigrazione clandestina, sia per chi gestisce l’accoglienza attraverso canali legalizzati, dalla Caritas alla miriade di associazioni e cooperative.

L’immigrazione è anche un ingrediente essenziale della guerra fra poveri promossa dai politicanti borghesi che usano gli immigrati come capro espiatorio, per scaricare su di loro le proprie responsabilità nel progressivo peggioramento delle condizioni di vita delle masse popolari italiane. La lotta all’immigrazione clandestina e al degrado provocato dagli immigrati clandestini serve alle autorità borghesi da pretesto per sperimentare ulteriori dispositivi di repressione e di controllo sociale.

Per i “democratici” governi dei paesi imperialisti (tra i quali rientra a pieno titolo anche il Vaticano) gli immigrati sono solo merci su cui speculare, un esercito industriale di riserva contro la classe operaia “troppo organizzata”, “troppo costosa” e meno ricattabile.

Per decenni i governi italiani, nessuno escluso, hanno permesso (e continuano a permettere) che centinaia di migliaia di immigrati che scappavano dalla povertà, dalla miseria e dalle guerre scatenate dalla NATO affogassero nel Mediterraneo o morissero assiderati nei container dentro cui si ammassavano per arrivare in Europa. Un numero imprecisato è imprigionato nei lager aperti dai governi italiani ed europei. Un numero ancora maggiore vive ai margini delle città e nelle baraccopoli delle campagne.

Ai cittadini “di buon cuore” che hanno osato offrire un ristoro alle persone ammassate a Ventimiglia (al confine con la Francia) o sostenuto chi provava ad attraversare a piedi le Alpi, lo Stato ha dispensato multe, denunce, processi e persino il carcere quando qualcuno al buon cuore ha aggiunto rivendicazioni politiche e appelli alla disobbedienza, all’organizzazione e alla mobilitazione.

In questo quadro va inserito anche il fenomeno dell’accoglienza ai profughi ucraini.

Quegli stessi assassini in doppio petto che non si fanno nessuno scrupolo a fare affari sulla pelle degli immigrati afgani, iracheni, siriani, malesi, egiziani, ecc. sono gli stessi che oggi lanciano h24 appelli per l’assistenza e l’accoglienza dei profughi ucraini. Inviano armi al governo fantoccio di Zelensky, alimentano la guerra, e intanto si smanicano per accogliere chi scappa dalle bombe… peccato che siano già pronti a offrire anche alla popolazione ucraina solo una vita di supersfruttamento.

Un governo serio, che fa gli interessi dei lavoratori e delle masse popolari e che vuole avere un ruolo positivo per la pace e la collaborazione fra paesi deve abolire subito tutte le leggi razziste e discriminatorie contro gli immigrati, deve abolire i centri di accoglienza, deve favorire i ricongiungimenti famigliari, deve garantire la possibilità di andare a scuola a tutti i bambini e ragazzi e deve assegnare a ogni adulto un lavoro utile e dignitoso.

La gestione dei profughi ucraini deve essere tolta al più presto agli speculatori e ai trafficanti di persone perché nelle loro mani diventerà una bomba sociale, un ingrediente aggiunto della guerra fra poveri.

La miccia è accesa

“A fronte di una carenza di personale negli alberghi e nei pubblici esercizi che sta diventando “cronica” e rischia di compromettere in particolare la prossima stagione estiva a Lignano Sabbiadoro, Confcommercio di Udine e provincia avanza l’ipotesi di un coinvolgimento delle popolazioni in arrivo dall’Ucraina.
(…) Il problema è emerso con la pandemia, quando “diversi collaboratori hanno preferito scegliere altre opportunità lavorative”. Da occasionale, sottolinea Confcommercio Udine, il fenomeno sta diventando cronico e la preoccupazione si concentra ora sui prossimi mesi, che soprattutto nella città balneare di Lignano Sabbiadoro, presentano l’urgenza di poter contare su personale qualificato.
“Viste le tante persone che, con la guerra in Ucraina, si presenteranno ai nostri confini e verranno accolte – affermano i rappresentanti di Confcommercio spiegando la loro proposta – si potrebbe pensare a quote aggiuntive che consentano a qualche immigrato in arrivo dai territori del conflitto di trovare lavoro nelle nostre imprese. Si potrebbe anche favorire la possibilità di inserimento lavorativo temporaneo per il periodo estivo – concludono – agevolando con servizi di nurseries chi giunge sul territorio con figli al seguito” – ANSA, 3 marzo 2022.

“Le imprese di Padova e di Treviso “non intendono voltarsi dall’altra parte”, per usare le parole del Premier Draghi, davanti all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e alla tragedia umanitaria che si sta verificando con l’esodo del popolo ucraino. L’invito rivolto dal presidente di Assindustria Venetocentro, Leopoldo Destro a segnalare la disponibilità ad attivarsi per contribuire a dare risposte concrete e immediate ai bisogni delle persone in fuga dalla guerra, per la gran parte donne, bambini e anziani, è stato già raccolto in pochi giorni da sessantasette imprese associate delle province di Padova e Treviso, che hanno messo a disposizione 24 alloggi (circa 100 posti letto) per l’accoglienza di famiglie di profughi ucraini e 240 offerte di lavoro per un’accoglienza piena, rispettosa e dignitosa delle persone nelle comunità del territorio” – Treviso Today, 10 marzo.

Se per gli esempi precedenti la scusa è che “gli italiani non vogliono più fare certi lavori”, in quello che segue il governo caccia lavoratori regolarmente assunti, ma sospesi a causa del Green Pass.
“Per un anno medici e infermieri ucraini scappati dalla guerra sostituiranno i camici bianchi No Vax sospesi. (…) Lo prevede il decreto “Misure urgenti” per l’Ucraina pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 21 marzo: è consentito l’esercizio temporaneo delle qualifiche professionali sanitarie e della qualifica di operatore socio-sanitario ai professionisti cittadini ucraini residenti in Ucraina prima del 24 febbraio 2022 che intendono esercitare nel territorio nazionale, in strutture sanitarie pubbliche o private, una professione sanitaria o socio sanitaria in base a qualifica conseguita all’estero regolata da direttive UE” – La Stampa, 22 marzo 2022.

Comunicato dell’Associazione Nazionale Vittime dell’Uranio Impoverito

In molti stanno prendendo posizione contro la guerra e l’impiego di soldati italiani nelle operazioni. Mentre lo Stato porta al 2% del PIL le spese militari, non sono solo le associazioni pacifiste e “di sinistra” che si oppongono all’invio di armamenti e uomini in Ucraina, ma anche soldati e funzionari delle Forze dell’Ordine e delle Forze Armate. Associazioni come l’ANVUI (Associazione Nazionale Vittime dell’Uranio Impoverito), il sindacato SIBAS finanzieri e persino alcuni generali dell’Esercito si schierano pubblicamente contro la partecipazione dell’Italia al conflitto.

Questo il comunicato dell’ANVUI del 24 febbraio:

“Proprio le oltre 400 vittime e le migliaia di ignari militari italiani che si sono ammalati, più un numero incalcolabile di civili inermi, sono il prodotto degli effetti devastanti di alcune tra le più terribili armi che sono state usate in passato e che potrebbero essere usate anche nel conflitto in corso in Ucraina e nella regione del Donbass.

(…) L’Associazione Nazionale Vittime dell’Uranio Impoverito non può che augurarsi che prevalga il buon senso e che si trovi la strada per una soluzione immediata e pacifica delle ostilità ma, contestualmente, in caso di un inasprimento del conflitto che comporti un intervento della NATO, chiede con fermezza che nessun militare italiano venga impiegato nelle zone di conflitto. Questa circostanza comporterebbe ulteriori perdite di vite umane sia per le conseguenze dirette del loro impiego in zona di guerra sia per gli eventuali effetti dell’esposizione all’uranio impoverito e alle nanopolveri di metalli pesanti rilasciate nell’ambiente dall’impatto degli armamenti. Sono già troppe le vittime che abbiamo riscontrato tra militari e civili nei precedenti e già citati conflitti e non siamo disposti ad accettarne altre.

A tale proposito ricordiamo l’art. 11 della Costituzione Italiana:

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

(…) Per la pace, per il rispetto dei principi costituzionali, a garanzia della salute del personale militare italiano e in nome di tutte le vittime dell’uranio impoverito!

Che nessun soldato italiano venga utilizzato per questa guerra a rischio della propria vita!”.

Nella “democratica” Ucraina repressione e persecuzione politica

L’attuale regime ucraino è nato dal colpo di Stato promosso da Washington nel 2014 (Euromaidan). Fin dal 2014 esso ha dato mano libera e sostenuto i nazisti in una feroce “caccia ai rossi”, cominciata nell’aprile di quell’anno con l’assalto alla sede del Partito Comunista Ucraino a Kiev, distrutta e data alle fiamme. In quell’occasione i militanti comunisti furono torturati e le foto dei trattamenti che subirono furono fatte circolare su Facebook accompagnate da questo post: “Questi sono i veri nemici della Patria. Non importa se si tratta di donne o di bambini, sono il cancro della nostra società e vanno estirpati. Andateli a scovare a casa e fateli fuori!”.

Secondo dati pubblicati nel 2014 da Human Right Watch, già a quell’epoca erano centinaia gli attivisti di sinistra perseguitati in Ucraina. Nello stesso anno Russia Today ha quantificato in trecentocinquantotto i membri o i simpatizzanti dei vari partiti comunisti assassinati.

L’episodio più conosciuto di queste persecuzioni è certamente la strage di Odessa, sempre del 2014: centinaia di persone furono torturate, stuprate, mutilate, sgozzate e infine bruciate dentro la Casa dei Sindacati data alle fiamme. I dati ufficiali parlano di 48 morti e tra questi fu rinvenuto il cadavere di una donna incinta strangolata col cavo del telefono.

Sergei Kirichuk, uno dei fondatori di Borotba (uno dei partiti comunisti ucraini), in seguito a quei fatti dichiarò: “L’orrore di Odessa ha dimostrato che si potevano compiere atti del genere e restare impuniti. Da allora per chi si considera di sinistra in Ucraina è iniziato il terrore. Ci stanno braccando. Vogliono costringerci a espatriare. Come dice Yarosh, noi siamo “portatori criminali dell’ideologia comunista”. Quindi, andiamo eliminati. Posso dire con certezza che in Ucraina esiste l’apartheid, anche se non è ancora stato codificato dalla legge”.

A partire dal 2015 il regime ucraino ha incorporato ufficialmente nel proprio esercito i gruppi paramilitari nazisti, come il battaglione Azov, protagonisti della persecuzione delle popolazioni russofone e in particolare della guerra contro le popolazioni del Donbass. Il conflitto in Donbass ha causato in sette anni più di 14mila morti. Un rapporto OCSE del 2016 intitolato War crimes of the armed forces and security forces of Ukraine: torture and inhumane treatment, Second report (Crimini di guerra delle forze armate e delle forze di sicurezza dell’Ucraina: torture e trattamento inumano, Secondo rapporto) dimostra in maniera dettagliata come l’esercito ucraino e le forze paramilitari naziste abbiano fatto nel conflitto uso sistematico del terrorismo, della tortura, dello stupro nei confronti dei militari catturati e dei civili.

Solo il 21 marzo scorso, Zelensky ha sospeso le attività di tutti i media e istituito un canale unico a reti unificate controllato dal governo; con lo stesso decreto ha sospeso le attività di tutti gli 11 partiti di opposizione. Al contempo proseguono gli arresti di comunisti e avversari del regime.

Questa è la natura del regime ucraino che governo e media vogliono convincerci a sostenere con l’invio di armi e soldati, un regime che paragonano alla Resistenza al nazifascismo! Respingiamo questa propaganda, boicottiamo le manovre di guerra del governo Draghi, avanziamo nella rivoluzione socialista per sventare la guerra imperialista che si profila all’orizzonte!

Appello dei comunisti ucraini

L’appello dei comunisti ucraini mostra bene il clima che si vive nel paese e riporta alcuni dei casi di repressione più eclatanti. Il testo è stato diffuso l’11 marzo sul sito di Roter Morgen, giornale del Partito comunista tedesco (KPD), che riporta anche il testo originale con link per verificare puntualmente ogni informazione.
“Cari compagni! Per favore, aiutateci a condividere questo appello!
Le autorità ucraine hanno organizzato una diffusa caccia alle streghe. Ogni giorno, nei territori controllati da Kiev, ci sono detenzioni, rapimenti e torture di attivisti politici e civili che non sono d’accordo con le politiche del governo centrale.
Le persone semplicemente scompaiono e solo giorni dopo, quando i parenti o gli amici iniziano a dare l’allarme, diventa chiaro che è successo loro qualcosa.
(…) Il noto attivista politico di Kiev Dmitry Skvortsov ha dichiarato sulla sua pagina Facebook che gli agenti del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina (SBU) stavano facendo irruzione nel suo appartamento. Non si è saputo più nulla di lui.
Alcuni giorni fa, il capo della Lega Leninista della Gioventù Comunista Ucraina, Mikhail Kononovich, e suo fratello gemello, capo del sindacato antifascista, Alexander Kononovich, sono stati rapiti a Kiev.
Il 3 marzo, uomini armati hanno fatto irruzione nell’appartamento di Alexander e Maria Matyushenko, comunisti dell’organizzazione “Livitsa” a Dnipropetrovsk. Hanno deriso i nostri compagni, li hanno picchiati duramente e hanno tagliato i capelli di Maria con un coltello. Sono stati portati al centro di detenzione preventiva con dei sacchi sulla testa. Maria è riuscita ad uscire, ma Alexander è accusato di alto tradimento e continua ad essere detenuto nelle prigioni del SBU.
Il 4 marzo, militanti della difesa territoriale di Kiev hanno arrestato un politico dell’opposizione e parlamentare, Nestor Shufrich. Filmati scioccanti dell’interrogatorio illegale si sono diffusi in tutto il mondo, ma questo non ha fermato i carnefici.
Il 7 marzo, a Odessa, militanti ucraini armati hanno fatto irruzione nell’appartamento dei genitori del noto giornalista Alexander Voskoboynikov. Hanno intimato di aprire la porta o l’avrebbero buttata giù loro. Quando i genitori hanno aperto, i nazionalisti sono entrati con le armi in mano. Tutti abbiamo assistito poi a filmati orribili sulle torture dei prigionieri di guerra. Ad esempio in uno si vede un pilota militare, ferito e catturato dai nazisti ucraini, che chiamano sua moglie dal suo telefono e le dicono di cercarsi un nuovo marito, lasciando intendere che lo avrebbero ucciso.
È impossibile infine guardare senza lacrime il video in cui i medici di emergenza ucraini, invece di fornire cure mediche, prendono in giro i pazienti esercitando su di loro una pressione morale e riprendendo il tutto con le telecamere.
Tutti questi fatti testimoniano la diffusa e grossolana violazione dei diritti umani fondamentali. Tutti questi fatti testimoniano la violazione della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra, adottata il 12 agosto 1949. Crediamo che la comunità europea debba sapere chi sostengono i loro governi. I cittadini europei dovrebbero sapere che le loro tasse sono spese per la tortura e gli abusi, per il mantenimento delle organizzazioni neonaziste, che in molti paesi, compresa la Russia, sono considerate illegali.
Vi esortiamo ad andare ai consolati e alle ambasciate dell’Ucraina per chiedere il rilascio dei politici e degli attivisti detenuti illegalmente. Chiedete la fine della caccia alle streghe. Chiedete il rispetto dei diritti umani e delle Convenzioni di Ginevra! Possono ancora essere salvati!”

La differenza fra informazione e formazione

Nell’epoca della menzogna, della manipolazione, dell’intossicazione delle coscienze usata come strumento di controrivoluzione preventiva, il problema principale delle masse popolari NON è l’attacco alla libertà di informazione e la battaglia principale NON è la rivendicazione del diritto a un’informazione libera.

La questione principale è la formazione: avere gli strumenti per capire la realtà e i processi che la trasformano, conoscere quei processi, determinarli.

I mezzi di informazione che oggi bombardano l’opinione pubblica con le fake news sulla guerra in Ucraina sono gli stessi che fino ieri l’hanno sommersa di menzogne sulla pandemia.

Alcuni degli opinionisti, sciacalli e terroristi che hanno imperversato nelle televisioni per due anni, h24, per piegare le masse popolari alla gestione criminale della pandemia sono stati sostituiti da altri che perseguono lo stesso obiettivo: intruppare le larghe masse, questa volta a sostegno dell’intervento militare.

I mass media sono strumenti che la classe dominante utilizza contro le masse popolari, in maniera tanto più spregiudicata quanto più è acuta la crisi del suo sistema di potere.

I comunisti lavorano non solo per unire coloro che la classe dominante cerca di dividere e contrapporre, ma anche per elevare la coscienza di quanti essa vorrebbe ignoranti e intellettualmente sottomessi.

Per questo la nostra lotta non è sull’informazione, ma sulla formazione. Oggi la grande massa della popolazione, e soprattutto gli elementi d’avanguardia della classe operaia e delle masse popolari, non hanno principalmente bisogno di “media indipendenti”, ma di scuole che insegnano a ragionare in modo coerente con i loro interessi e ad agire di conseguenza.

Adifferenza di tanti “giornalisti indipendenti” che lanciano e rilanciano notizie false e spacciate per vere o, peggio, notizie che hanno lo scopo di veicolare teorie antiscientifiche, antistoriche e antisociali, Julian Assange ha svolto un ruolo positivo nella battaglia per la libertà di informazione. Ha svelato all’opinione pubblica le informazioni segrete e gli “indicibili intrighi” della classe dominante, in particolare degli USA.
Una cosa simile l’ha fatta Edward Snowden, ex agente della NSA che ha svelato al mondo il sistema di controllo globale messo in piedi dai governi statunitensi.
Oggi Julian Assange è detenuto in Inghilterra e verrà estradato negli USA dove rischia 175 anni di carcere (sempre che qualcuno non lo elimini prima), mentre Snowden ha trovato riparo in Russia per evitare la stessa fine.
Le vicende di entrambi mostrano quanto costa oggi praticare la libertà di informazione nei paesi imperialisti, i cui governi pretendendo di esportare “democrazia” a suon di bombe nel resto del mondo.
Ma qui ci interessa sottolineare altro: neppure gli elementi d’avanguardia delle masse popolari hanno potuto sfruttare appieno il coraggioso e pregevole lavoro di Assange e Snowden: non erano né formati per comprendere molte delle informazioni che questi hanno diffuso né organizzati per usarle al meglio.
Ecco una dimostrazione del fatto che è principale la formazione rispetto all’informazione.

Toscana: la rete lavoratori contro il Green Pass

Pubblichiamo di seguito l’intervista ad alcuni membri della “Rete Lavoro No Green Pass”, operai della Vitesco e della Magna, aziende toscane produttrici di componenti per auto. È un esperienza preziosa di protagonismo operaio, che mostra quanto sia importante e fruttuoso per i lavoratori mettersi in gioco in prima persona e organizzarsi al di là delle logiche sindacali e politiche. Per partire non serve essere in tanti: anche pochi lavoratori, ma determinati, possono fare la differenza.

Come è partita questa esperienza? Perché avete avuto l’esigenza di fondare questa rete?

Giacomo (Vitesco). L’esperienza è partita da un gruppo di lavoratori della Vitesco di Pisa, che da Natale 2021 si era organizzato creando un gruppo Whatsapp chiamato “Uniti più che mai”, per cercare di creare solidarietà, unità, di scambiarsi informazioni su questa storia del Green Pass (GP), del super GP e  dei lavoratori sospesi. Si tratta di un gruppo assolutamente auto organizzato, con dentro lavoratori che hanno la tessera della Fiom, oppure  dell’USB, altri che non hanno avuto alcuna tessera o l’hanno avuta in passato ma l’hanno stracciata. É un comitato che non vuole assolutamente essere affiliato ad alcun tipo di organizzazione sindacale, il nostro intento è quello di promuovere l’associazione dei lavoratori al di là di qualsiasi tipo di appartenenza sindacale o di appartenenza politica. Crediamo che questa sia l’unica strada concreta per rilanciare un percorso di aggregazione.

Questo tema del GP è stato importante perché ha visto molti lavoratori iniziare a mobilitarsi, a organizzarsi, perché tocca direttamente le vite di ognuno. Io sono stato coinvolto dopo la nascita del gruppo e ho cercato di portare quel minimo di esperienza sindacale che ho. Siamo riusciti a organizzare un’assemblea aperta davanti alla Vitesco che ha avuto un discreto successo. Quando abbiamo fatto l’assemblea c’erano circa 120 persone, fra lavoratori Vitesco e di altre realtà. Non era un una cosa scontata, perché avevamo contro tutti.

Purtroppo i sindacati confederali, in particolare la Fiom che da vari decenni gestisce tutto quanto c’è di sindacale in azienda, se ne è lavata le mani di questa problematica, a livello locale è sulla stessa linea del nazionale.

L’altra organizzazione presente in azienda, l’USB, di cui ho la tessera, non solo non ci ha supportati, ma ci ha addirittura boicottato. Come USB a livello aziendale avevamo deciso di indire sciopero il 15 febbraio, però l’organizzazione provinciale, in accordo con il nazionale, l’ha boicottato. Quindi abbiamo dovuto dare indicazioni diverse e abbiamo avuto anche molte difficoltà. Questo ci è dispiaciuto anche se ce l’aspettavamo, perché sappiamo quali sono le posizioni di USB in merito. Noi comunque andiamo avanti con le nostre idee. Il nostro obiettivo è auto-organizzare lavoratori, indipendentemente da qualsiasi tipo di sigla sindacale o idea politica.

Bisogna sottolineare che, nonostante ci siano 750 esuberi su 1000 dipendenti, dichiarati da più di 2 anni, la Fiom ha praticamente silenziato qualsiasi forma di protesta e qualsiasi forma di conflitto, dicendo che stanno trovando delle soluzioni, che stanno contrattando con le istituzioni. Insomma, le solite cose per addormentare i lavoratori che si sono in qualche modo adagiati, che hanno così accettato che i 750 esuberi ci sono e che non si può fare niente.

Noi ci contrapponiamo a questo metodo, anche per questo ci siamo mobilitati. Credo che questo gruppo di lavoratori possa intervenire anche su questo tema. Contro tutti siamo riusciti ad auto-organizzarci, a promuovere un’assemblea che ha visto una buona partecipazione, a diffondere sul territorio le nostre idee. Se l’abbiamo fatto noi con le nostre forze, significa che posso farlo anche altri. Quindi, se si tratterà di organizzare anche una lotta contro gli esuberi, credo che questo esempio sia importante, anche per quei lavoratori che magari finora non hanno creduto che il tema del GP meriti troppa attenzione.

Quindi questa rete ha una doppia valenza, secondo me. Ci serve per creare unità e solidarietà tra di noi, per organizzarci sulla questione del GP, dei sospesi e tutti i temi relativi a queste cose; ma ci serve anche per capire che da soli possiamo costruire qualcosa di molto importante. Non è necessario che ci sia un sindacato che in qualche modo ci supporta, noi abbiamo fatto da soli e abbiamo dimostrato agli altri lavoratori che si può fare.

Abbiamo anche organizzato un’altra assemblea alla Magna di Livorno. I partecipanti qui sono stati una cinquantina: numericamente inferiore, ma qualitativamente molto importante. Quelli che hanno partecipato mi hanno detto che è stato un buon dibattito, che è servito per dimostrare ai lavoratori e alle lavoratrici Magna che anche loro non sono soli.

C’erano anche lavoratori di altre aziende e settori: della sanità, del pubblico impiego, della scuola. Ci hanno invitato a fare assemblee simili di fronte ai loro luoghi di lavoro. Infatti stiamo pensando di organizzare un’altra assemblea aperta di fronte all’ospedale di Cisanello di Pisa e poi un’altra di fronte ad una scuola di Livorno.

Da questo percorso è nata la Rete Lavoro No Green Pass, che mette insieme tutti quelli che sono interessati ai nostri temi, che non riguardano esclusivamente il GP, ma si allargano a tutta un’altra serie di questioni. Lo abbiamo detto chiaramente nella prima assemblea: il GP non è uno strumento che interessa pochi. Al contrario interessa tutti e sarà sicuramente utilizzato in futuro per ottenere un controllo in tempo reale sulle persone, anche al di là dell’aspetto puramente sanitario.

Vediamo a esempio quel che è successo in Canada: possono tranquillamente impedire a chiunque di manifestare semplicemente bloccando i conti correnti o mettendo dei blocchi alle proprietà dei singoli individui. Basta individuarli in qualche modo e non ci vuole nulla ai governi per intervenire, reprimere, ricattare chi si oppone e chi dissente. Ecco perché noi crediamo che il GP durerà e andrà ben oltre lo scopo per cui è stato pensato.

Noi sappiamo bene che lo scopo del GP non ha niente a che vedere con con la questione sanitaria, ma è uno strumento di controllo politico, è uno strumento che ci ha imposto un governo autoritario, che ha distrutto lo stato di diritto e vuole cancellare completamente la Costituzione. Vedi a esempio quello che stiamo vivendo adesso: ci hanno portato in guerra e stanno mandando armi, fregandosene completamente dell’articolo 11 della Costituzione, così come se ne sono fregati degli altri articoli che dicono chiaramente che ognuno col proprio corpo deve essere libero di fare quello che vuole. Tanto più quando ci si sente ricattati da un’imposizione di un siero vaccinale che assolutamente non è dimostrato che sia utile. É una terapia genica sperimentale e assolutamente un qualcosa che non si poteva imporre.

Siamo in contatto con vari avvocati e tutti ci dicono che il funzionamento della macchina giuridica in Italia è stato completamente alterato e non si riesce a intervenire. Gli avvocati non sanno più dove mettere le mani perché il governo Conte prima, con tutti i DPCM che hanno fatto, e il governo Draghi adesso, hanno creato una confusione tale che diventa quasi impossibile riuscire a districarsi nelle mille norme che si sono inventati.

Come vi state rapportando con gli altri lavoratori, con i vostri colleghi che magari sono vaccinati e quindi hanno il Green Pass?

Giacomo (Vitesco). I lavoratori Vitesco presenti all’assemblea erano una quindicina, perché tanti erano in malattia oppure erano in quarantena. Detto ciò io sono sospeso dal 15 ottobre, ho fatto questa scelta perché ritengo che anche sottoporsi a tamponi continui non sia la risposta giusta. Quindi non entro nel merito di quello che succede in azienda anche se ho sentito molte cose.

Ovviamente come in tutti i luoghi di lavoro si è creata una contrapposizione forte fra chi ha ceduto al ricatto e chi no. Io penso che veramente in pochi credono che il GP sia effettivamente una misura sanitaria, la stragrande maggioranza delle persone che ha accettato questo ricatto lo ha fatto perché in qualche modo doveva lavorare, doveva fare le attività di tutti i giorni e quindi in qualche modo, come raccontato dal governo, dovevano tornare alla normalità. Vedere che c’è qualcuno che si oppone a questo e che lo fa con forza ovviamente crea una contrapposizione notevole tra chi ha accettato il ricatto, e quindi in qualche modo si sente così in una posizione di forza, e chi invece non l’ha accettato e viene bollato come il diverso, come il rompiscatole di turno, quello che che non sa accettare la realtà e che in qualche modo vuole dire la sua.

Ebbene sì, noi vogliamo dire la nostra e in particolare a questo aspetto ci tengo. Ci tengo molto perché noi siamo contro il GP, ma lottiamo in generale contro tutte le discriminazioni. La prima e più importante discriminazione è quella di chi si schiera con il potere, pensa di essere dalla parte del giusto e quindi critica anche in modo molto duro, molto offensivo e con grande disprezzo gli altri che invece la pensano diversamente e che non si vogliono sottoporre al ricatto.

La libertà di opinione e di scelta è sancita dalla Costituzione, ma nell’Italia del 2021/2022 questo non è più accettabile. La necessità è che si ubbidisca al potere e chi dissente deve essere messo ai margini e non gli si deve dare libertà di parola. Questo è quello che vorrebbe il potere. Questo è un aspetto centrale ed è un aspetto che noi, come Rete Lavoro No Green Pass dovremmo sempre portare nelle discussioni pubbliche. Se si accetta che una parte della popolazione sia messa ai margini, gli sia impedito di parlare, di fare delle scelte, questo non è solamente un problema per quanto riguarda la questione sanitaria, la questione del vaccino, questo diventa un problema in generale.

Noi pensiamo che questo stato di emergenza diventerà permanente. Finirà quello per il Covid, ma adesso siamo in emergenza per la guerra. Siamo l’unico paese in emergenza e siamo lontani dal fronte, questa è una bella contraddizione e qualcuno ce la dovrebbe spiegare. L’emergenza è una cosa che permette al potere di fare quello che vuole, giustificando tutte le scelte. Hanno cancellato completamente la Costituzione perché siamo in emergenza, ci hanno portato in guerra perché stiamo un’emergenza e molto probabilmente a settembre o ottobre torneranno all’attacco con la questione Covid, e magari ci sarà anche l’emergenza energetica, l’emergenza climatica, l’emergenza profughi. Questo meccanismo dell’emergenza perpetua purtroppo permetterà loro di fare quello che gli pare. Noi dobbiamo opporci a questo, far sentire agli altri lavoratori che non sono isolati nella propria fabbrica, ma c’è una rete, c’è un collettivo, c’è un gruppo di lavoratori che si è messo insieme e cerca di fare opposizione, cerca di portare all’esterno le proprie ragioni.

Alessio (Vitesco). Come gruppo in azienda siamo una cinquantina di persone almeno. Fra i capi e dirigenti non conosciamo la situazione. Anche lì ci sono dei non vaccinati, so per certo che c’erano anche dei responsabili di reparto che erano come noi. Comunque loro, guidati dall’azienda, non si sono uniti a noi, sono rimasti nell’anonimato.

Abbiamo anche cercato di costituire un piccolo fondo, una cassa di sostegno. È piccolissimo, però va bene. É così emozionante il fatto che in questa situazione, dove non c’è più nessun tipo di valore, sia nato questo rapporto di fratellanza. Vorrei trasmettere questa sensazione a tutti perché sono sicuro che non ci si può arrendere così alla dittatura di questi governi. Non sono assolutamente per nessun tipo di violenza, ma tante volte ho pensato che Piazzale Loreto ci vorrebbe un’altra volta.

Giacomo (Vitesco). La cassa di resistenza è un progetto importante. Vorremmo riuscire a costruirla anche in altri luoghi di lavoro con cui siamo in contatto. Se si riuscisse a costruire un sistema di casse di resistenza coordinato, comune a tutti, sarebbe la cosa migliore. Non è facile, perché non si può fare la raccolta a mano in tutti i luoghi di lavoro. Bisognerebbe costruire un sistema che permettesse a tutti di partecipare anche senza la presenza fisica.

Siamo in contatto con vari avvocati e anche qui cerchiamo di capire quali siano le vie migliori da un punto di vista legale per la questione GP e dei lavoratori sospesi. Purtroppo anche gli avvocati sono in estrema difficoltà, perché la strada da seguire non è per nulla chiara e i rischi sono tanti. Quindi anche gli altri lavoratori che vogliono informazioni si possono rivolgere alla nostra rete. Abbiamo un gruppo Facebook che in pochi giorni ha raggiunto quasi 200 iscritti e poi un gruppo Telegram che ha raggiunto 100 iscritti.

Dare questo genere di informazioni molto tecniche, molto pratiche, dimostra che noi vogliamo costruire unità e solidarietà anche in modo concreto. Soprattutto per quanto riguarda la cassa di resistenza è importante. Dovremo organizzarci e dividerci i compiti, cercare appunto di far uscire un pochino dal confine del delle nostre aziende quello che pensiamo e soprattutto quello che concretamente vogliamo fare.

Donatella (Vitesco). Io lavoro in Vitesco da 26 anni. Io il vaccino l’ho fatto, ma non perché ci abbia creduto. Non sono mai stata convinta, ma mi sono detta “speriamo che possa servire”. Quando l’ho fatto non si parlava ancora di casi di danni da vaccino. Si parlava dei rischi di Astra Zeneca, ma gli altri sembravano tutti il non plus ultra della sicurezza. Anche il mio compagno, ex lavoratore Vitesco ora in pensione, con una grave patologia, la sclerosi multipla , fu convinto a farlo.

Mi ricordo che quando ci hanno dato la seconda dose già parlavano del GP. Quando siamo arrivati ad agosto ho capito che cos’era questo GP. Vedevo le discriminazioni che i miei colleghi subivano in azienda, le persone vaccinate convinte che guardavano i colleghi andare a mangiare fuori come degli appestati.

Io spero che tolgano il GP. Dobbiamo provare a lottare anche dopo che lo avranno tolto, ricordarci di chi non ha voluto queste persone a mangiare, non gli ha permesso di fare la spesa, non gli ha permesso di fare questo, non gli ha permesso di fare quello. Io me lo ricordo, mi ricordo dei miei colleghi che sono stati discriminati e mai e poi mai dimenticherò.

Se non finirà dobbiamo davvero cominciare a costruire un mondo parallelo per uscire da questa Matrix. Dobbiamo far così perché loro non ci permettono di vivere, hanno in testa di distruggere l’umanità. Per il caro ministro Cingolani, per Colao, per Bill Gates e tutto il Nuovo Ordine Mondiale noi siamo dei mangiatori inutili. Invece loro sono utili! Prima di sterminare me è il caso che muoiano loro, altrochè Piazzale Loreto!

Federico (Vitesco). Questa situazione ha creato disagio nella Fiom. Che io sappia sono almeno 100 le tessere disdette. Non hanno mosso un dito. Alcuni di questi sindacalisti hanno augurato la terapia intensiva a chi non si è vaccinato e hanno fatto in modo che questa discriminazione fosse ancora più marcata. È veramente orrenda come situazione perché un sindacalista dovrebbe cercare di dare apporto a qualsiasi tipo di lavoratore. Con la cancellazione delle tessere  penso che comunque già un messaggio sia arrivato.

L’importanza di aver fatto questa assemblea costruita da noi dimostra che si può fare qualsiasi cosa, basta essere uniti, basta volere arrivare a un obiettivo tutti insieme. Donatella dice che si ricorderà di chi è stato anche colpevole di avere discriminato i colleghi, io invece sto cercando di cambiare su questo aspetto. Inizialmente ero molto cattivo nei confronti di queste persone. Sto cercando di cambiare mentalità, perché vorrei far cambiare idea a questi che sono ipnotizzati da informazioni sbagliate.

Ora con la guerra stanno facendo la stessa cosa. É vero: c’è il virus, c’è la guerra. Però è anche vero che le informazioni sono manipolate come gli pare a loro. Vedi i bombardamenti sull’ospedale e non è vero niente. Le stesse notizie false l’hanno date sia per il Covid che per la guerra, per continuare a imbrogliare e ipnotizzare le masse.

Hanno creato una situazione dove non c’è più empatia, non c’è più socializzazione, io ho visto veramente la cattiveria allo stato puro. All’inizio della pandemia c’era sui balconi “ne usciremo migliori” e invece è uscito veramente il peggio del peggio dell’essere umano. Questa è la cosa che mi dà più fastidio. Io credo che la soluzione sia quella di convincere, di trasmettere la voglia di ricominciare a lottare per i nostri diritti. Il GP non lo toglieranno mai del tutto, lo manterranno per tirarlo fuori quando gli farà comodo, e questo è possibile perché ormai la maggioranza lo ha accettato.

Per noi il primo passo è il GP, ma credo che dopo si debba mettere mano a tutto quello che ci hanno tolto e che hanno smantellato: la sanità pubblica, i servizi ecc.

Francesca (Magna). Alla Magna produciamo serrature per le auto, siamo circa cinquecento, di questi una trentina senza GP. Siamo  veramente pochi e nessuno ci dava una mano. Siamo stati emarginati, ci hanno augurato il peggio, ci hanno fatto mangiare fuori senza nemmeno delle tende se pioveva e c’è anche chi era contento di questo.

La situazione alla Magna è veramente triste e quindi avevamo bisogno di aiuto. Ci seguiva un po’ la sindacalista della CISL, anche lei non vaccinata. Però aveva le mani legate, perché anche dalla CISL non abbiamo ricevuto grandi appoggi. Quindi abbiamo dovuto ricorrere a modi alternativi per aiutarci.

Ho conosciuto Giacomo tramite una mia ex amica sindacalista USB. Ero con la Fiom, poi sono passata a USB perché pareva che questa sindacalista volesse spaccare mare e monti. Invece davanti a me diceva tante belle cose, ma poi su Facebook scriveva cose veramente terribili. Alla fine ho disdetto anche la tessera da USB. Mi sono appoggiata a Giacomo perché sapevo che organizzava queste cose. Abbiamo chiesto aiuto e ci siamo poi alleati con la Vitesco. 

Sul fronte dell’allargamento della rete, quali sono i prossimi passi?

Giacomo (Vitesco). Come dicevo abbiamo in mente di fare due iniziative: una all’ospedale di Cisanello e un’altra in un liceo di Livorno, perché siamo in contatto con lavoratori del settore sanitario e della scuola. Poi pensiamo anche di farne un’altra alla Solvay di Rosignano Marittimo, dove siamo in contatto con il gruppo che ci segue fin dalla prima assemblea alla Vitesco.

Sabato 19 marzo abbiamo la manifestazione contro la guerra l’aeroporto militare di Pisa e noi come Rete Lavoro No Green Pass parteciperemo e stiamo contribuendo a organizzarla. Andremo lì con le nostre posizioni. È probabile che tra i presenti troveremo anche qualcuno di quelli che in passato ci augurava di finire in terapia intensiva o peggio. Nonostante questo dobbiamo essere lì, perché le nostre ragioni a questo punto sono tante. In questi due anni sono avvenute delle cose che nessuno può più negare. Quindi noi andiamo, portiamo le nostre ragioni, anche cercando di dialogare con chi fino a ieri ci trattava da complottisti, da persone che non stanno con i piedi per terra. Noi siamo aperti verso tutti, anche verso quelli che fino a poco tempo fa credevano ciecamente alla narrazione del governo. Si stanno aprendo tante crepe, in tanti hanno molti dubbi, in particolare sull’utilità del vaccino, sul suo funzionamento e quindi anche sul GP.

Un altro appuntamento importante è quello del 26 marzo a Firenze, la manifestazione indetta dal collettivo GKN. All’assemblea alla Magna abbiamo invitato un rappresentante di questo collettivo, che ha fatto un intervento molto importante, molto utile perché ha raccontato che con l’auto-organizzazione si può costruire un movimento che poi è diventato nazionale. Noi siamo in contatto con la GKN, siamo d’accordo con loro che faremo un’assemblea nella nostra zona discutendo proprio delle questioni e dei problemi legati al settore automotive.

È importantissimo esserci perché loro sono un esempio notevole che conferma quanto diciamo anche noi: dobbiamo costruire iniziative basate sull’auto-organizzazione, indipendentemente dalle dalle sigle sindacali, gestite dai lavoratori. Solo in questo modo si riesce a costruire rete e si riesce a costruire opposizione.

USB: il 22 aprile sciopero e manifestazione nazionale a Roma

Il P.CARC aderisce e sostiene questa mobilitazione. Anche questo sciopero deve essere un’occasione per avanzare nella costruzione dell’unità e dell’organizzazione della classe operaia.

Il documento di indizione, “È l’ora della variante operaia: senza lavoratori non c’è vera ripresa. Appello per una grande mobilitazione il 22 aprile a Roma”, firmato da lavoratori e delegati Usb, va nella giusta direzione e pone questioni che sono nell’interesse generale.

La giusta direzione è quella del legame e della continuità di fatto con la mobilitazione dei lavoratori GKN del 26 marzo. La mobilitazioni promossa da Usb va sostenuta, nell’ottica di farla diventare un ulteriore passo verso un movimento che si pone l’obiettivo di prendere in mano il governo del paese.

A seguire uno stralcio dell’appello:

“Non ce ne frega niente se aumenta o meno il PIL e se la produzione industriale è in rialzo e tutti i bla bla bla di cui ci parlano ogni giorno sugli indici economici della nazione. Noi siamo operai e sappiamo che senza di noi non c’è produzione, né ricchezza, né servizi. Siamo noi che mandiamo avanti la baracca, senza di noi tutto si ferma. Per cui, se parliamo di ripresa è dal lavoro che si deve partire. (…)

C’è un filo che lega la nostra vita di operai, sia che lavoriamo in fabbrica o nei magazzini della logistica, oppure nei porti o nei servizi, nel commercio o nelle campagne: è aumentato lo sfruttamento. Tengono bassi i salari e ci spremono fino all’osso senza più riguardo per orari, contratti e sicurezza. Per questo è ora di costruire un’azione comune e promuovere una mobilitazione che rimetta il lavoro al primo posto. La ripresa deve essere valutata sulla base di quanto lavoro buono, di qualità, ben retribuito viene realizzato.

Proponiamo l’organizzazione comune di una grande mobilitazione operaia a Roma per il prossimo 22 aprile che metta insieme le tante vertenze irrisolte e le mille voci inascoltate e punti ad invertire l’ordine delle priorità: prima il lavoro! E in quella data vogliamo costruire un grande sciopero di tutti quelli che producono e distribuiscono le merci in questo paese.

La ribellione degli studenti per gli omicidi di Lorenzo e Giuseppe e contro la pretesa di imporre la logica dell’impresa finanche nella scuola è la nostra stessa ribellione. Proponiamo di mobilitarci insieme, operai e studenti, a partire dalle condizioni di vita e di lavoro, non certo solo per noi ma per tutti. Per dare un segnale di riscossa a tutta la società.

Abbiamo una Piattaforma che vogliamo condividere con tutti quelli che si riconoscono nella stessa condizione e che sono stanchi di essere presi in giro. Essa è solo una base per la discussione, che rimane aperta, ma è soprattutto un invito alla lotta comune. I temi che qui riassumiamo in sintesi sono: basta con gli appalti, rialzo dei salari e delle pensioni e legge sul salario minimo, ritorno dello Stato in economia e nazionalizzazione dei settori strategici (Nuova IRI), riduzione dell’orario di lavoro, reato di omicidio sul lavoro e potenziamento degli istituti di controllo e tutela degli RLS, difesa del patrimonio pubblico (No al Decreto Concorrenza), stop al part time obbligatorio e ripristino del pagamento della quarantena.

Se non saremo noi operai a rimettere questi temi al centro della discussione, nessuno lo farà per noi. Hanno fatto in modo che il nostro punto di vista uscisse completamente di scena, come fossimo destinati ad estinguerci. E invece hanno continuato a spremerci spegnendo la nostra voce.

Senza di noi non ci può essere nessuna ripresa. Per uscire dalla crisi c’è bisogno della variante operaia”.

Massa: formazione e dibattito operaio

Il 28 febbraio 2022 la Sezione di Massa del P.CARC ha svolto la consueta lettura collettiva mensile di Resistenza. Abbiamo discusso l’articolo “GKN, una nuova fase della lotta”.

La lettura è stata pensata proprio per portare questi insegnamenti agli elementi avanzati della classe operaia massese con cui siamo in contatto. Per farlo nel migliore dei modi è stato invitato a partecipare anche Antonio Martello, operaio GKN, componente del Collettivo di Fabbrica e membro della Sezione di Prato del PC.

All’iniziativa erano presenti oltre i compagni della Sezione vari simpatizzanti. Fra questi anche alcuni operai, in particolare della Sanac (in lotta contro la chiusura) e della Baker Hughes (BH, ex Nuovo Pignone).

Il dibattito è stato avviato dall’intervento di Martello. Le sue considerazioni hanno trasmesso slancio e fiducia negli operai presenti. Antonio ha portato la sua esperienza diretta, illustrando sia i risultati che le difficoltà trovate nella costruzione del Collettivo di Fabbrica (CdF) e, in seguito, nella lotta contro la chiusura. Ha mostrato come tutto quello che è stato fatto e si farà magari non è facile, ma è possibile e necessario.

Ha sottolineato come, per costruire il CdF, si siano lasciate da parte le appartenenze politiche o sindacali per mettere al centro l’obiettivo della continuità produttiva e gli interessi dei lavoratori. Oggi la costruzione di un vasto coordinamento di forze operaie e popolari che il CdF promuove attraverso l’appello “Convergere e insorgere” e l’Insorgiamo Tour è lo strumento necessario non solo alla loro lotta particolare ma a quella più generale che deve porsi come obiettivo il ribaltamento dei rapporti di forza nel paese in favore delle masse popolari tutte e della classe operaia.

Il quadro della lotta GKN e il ragionamento sul ruolo della classe operaia nella costruzione del futuro del paese ha fornito agli altri operai concreti spunti di discussione. I lavoratori BH sono intervenuti esponendo le difficoltà incontrate in passato nella costruzione di un coordinamento di tutti i lavoratori (alla BH ci sono anche operai dipendenti di ditte esterne), difficoltà che possono essere superate solo con la costruzione di un’organizzazione che vada oltre la tessera sindacale e il profilo contrattuale; che vada oltre quelle RSU che ostacolano il processo unitario; che metta al centro la comune appartenenza di classe e la risoluzione dei problemi lavorativi. I lavoratori Sanac, a loro volta, hanno esplicitato l’intenzione di riversare gli insegnamenti della GKN nel lavoro in corso per costruire un coordinamento esterno all’azienda, che li sostenga nella lotta contro la dismissione e che sia capace di infondere coraggio a quegli operai che oggi sono sfiduciati e sentono di essere stati abbandonati a loro stessi.

12 marzo: corteo a Bologna contro il Green Pass e la guerra

Il 12 marzo abbiamo partecipato alla riuscita manifestazione nazionale contro la guerra e contro lo stato di emergenza promossa a Bologna da Fronte del Dissenso, Emilia Romagna Costituzionale e Movimenti di Resistenza Costituzionale a cui hanno aderito numerosi coordinamenti di piazza, soggetti politici tra i quali Riconquistare l’Italia, Studenti contro il Green Pass, PC Rizzo, Ancora Italia, il sindacato FISI e il CLN.

Dopo 34 settimane consecutive di mobilitazioni contro il Green Pass, la gestione criminale della pandemia e lo stato di emergenza, i promotori hanno allargato la protesta alla questione della guerra. “Guerra e pandemia: stessa strategia” era lo slogan della manifestazione che è tornata dopo mesi di divieti a riprendersi le vie centrali della città. Al comizio di chiusura si è ricordato senza ambiguità il ruolo della NATO come prima promotrice della guerra in Ucraina e si è chiesta a gran voce l’uscita dell’Italia dall’UE, dalla NATO e dai teatri di guerra. È stata espressa solidarietà agli antifascisti del Donbass e i vari relatori hanno denunciato la subalternità del governo italiano agli oligarchi (borghesia imperialista) di casa nostra, degli USA e della UE.

In piazza erano presenti delegazioni da varie città italiane, in particolare dal Veneto e dalle Marche. Abbiamo propagandato fra studenti, operai e lavoratori autonomi la manifestazione del 26 marzo a Firenze del Collettivo di Fabbrica della GKN con l’obiettivo di promuovere un fronte unito capace di liberare il paese, di rovesciare questo governo e costruirne uno che sia realmente espressione degli interessi delle masse popolari.

La linea della convergenza con gli operai GKN ha trovato il massimo consenso fra i partecipanti, che hanno accolto, in generale, con grande favore anche le nostre bandiere rosse. Abbiamo dato via 400 volantini in due ore: queste sono piazze in cui il volantino te lo prendono dalle mani quando vedono che hai la falce e martello in spalla. Nei mesi scorsi il lavoro costante di tanti compagni e compagne, attivi nel movimento e in varie organizzazioni, ha concorso ad elevare i contenuti di queste mobilitazioni in cui ora la questione della gestione politica dell’intera società è vista come la questione decisiva.

Diversi interventi al comizio di chiusura hanno spinto per la costituzione di un soggetto politico unitario che raccolga quello che il movimento ha costruito in questi mesi. Bene ha fatto Francesco Tabaroni di Emilia Romagna Costituzionale a ricordare la parabola del M5S: insegna che non ci si può limitare ad andare a caccia di voti per poi sperare di aprire il parlamento come una scatola di sardine. I Comitati di Liberazione Nazionale vanno costruiti sui territori: occorre organizzare in ogni città, in ogni quartiere, in ogni azienda, in ogni scuola, organismi aperti a tutti coloro – singoli o organizzazioni – che si impegnano a portare avanti campagne coordinate per affermare dal basso gli interessi delle masse popolari, che sono opposti e inconciliabili con quelli di capitalisti, padroni e speculatori, italiani e stranieri. Questo è il lavoro da fare adesso.
MP
Federazione Emilia Romagna del Partito dei CARC

Mobilitazioni contro la guerra

In queste settimane non ci sono solo le mobilitazioni dei “pacifisti con l’elmetto” del PD e affini, ufficialmente contro la guerra, ma nei fatti a sostegno del governo nazista dell’Ucraina. Ce ne sono anche tante organizzate unitariamente da organizzazioni popolari e da partiti e aggregati del movimento comunista italiano che denunciano il ruolo della NATO nell’escalation militare, sono per l’uscita dell’Italia dal patto atlantico e contro ogni manovra militare. Avanziamo nella mobilitazione unitaria!

Il 6 marzo a Ghedi (BS), ai cancelli della base dell’Aeronautica Militare italiana al servizio della NATO per lo stoccaggio di una parte dell’arsenale arsenale nucleare degli USA, si è tenuta una manifestazione organizzata dal Comitato Contro la Guerra di Brescia. L’evento ha raccolto moltissime adesioni: dal Movimento No TAV ai comitati “Donne e uomini contro la guerra” e “Compagne e compagni contro il Green Pass”, oltre a diverse associazioni pacifiste presenti in Lombardia. Oltre a noi del P.CARC c’erano forze politiche come il Partito Comunista, Potere al Popolo, PCI, Rifondazione Comunista, Partito d’Alternativa Comunista, Sinistra Anticapitalista e diverse anime del sindacalismo, dall’Usb all’area della CGIL “Riconquistiamo tutto”. Presenti anche la Banda degli Ottoni e l’ANVUI (Associazione Nazionale Vittime dell’Uranio Impoverito) che raccoglie i reduci e i familiari dei soldati che sono morti o si sono gravemente ammalati per esposizione ai metalli pesanti nelle missioni militari NATO.

Tanti i contenuti degli interventi: denuncia dello stoccaggio delle testate atomiche nella base di Ghedi che ne fanno un “obiettivo altamente sensibile” in caso di guerra; necessità di lottare non solo contro la guerra ma contro il capitalismo; denuncia della propaganda di regime che spinge l’opinione pubblica a sostenere l’impegno militare diretto in Ucraina; necessità di utilizzare i fondi stanziati per la spesa militare per altri e ben più utili usi tra cui la bonifica delle zone contaminate dagli addestramenti militari su suolo italiano.

Il 19 marzo a Pisa si sono tenute due mobilitazioni: quella indetta da Comitato No Camp Darby, Rete Lavoro No Green Pass e Cub all’aeroporto militare per dire NO al coinvolgimento dell’Italia nella NATO e nelle sue guerre; l’altra all’aeroporto civile Galilei organizzata da Usb e Potere al Popolo, a seguito del rifiuto dei lavoratori aeroportuali di caricare casse piene di armi destinate al conflitto ucraino.

L’Usb ha rafforzato e rilanciato l’iniziativa dei lavoratori, chiamando in causa la direzione di Toscana Aeroporti e le pubbliche amministrazioni – Regione e Comune di Pisa in primis – che siedono nel suo Consiglio di Amministrazione, e denunciando i rischi a cui questo traffico di armi ed esplosivi espone tanto il personale dell’aeroporto quanto i viaggiatori e gli abitanti della città.

Per il 31 marzo il coordinamento nazionale lavoratori portuali Usb ha organizzato una giornata di lotta a Genova contro il traffico di armi nei porti italiani, una lotta per la quale i compagni del Comitato Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) si mobilitano da anni. È prevista un’assemblea nazionale dei lavoratori e un presidio al Ponte Etiopia, in occasione dell’arrivo della nave saudita Bahri carica di armamenti statunitensi.

L’intervento di Cristian Bodei, segretario della Sezione di Brescia del P.CARC, alla manifestazione di Ghedi. “La situazione è grave. Dobbiamo renderci conto che il governo Draghi ci porta verso la guerra imperialista. In questo contesto non è possibile mantenere nessuna equidistanza. Noi dobbiamo innanzitutto ribadire che siamo contro la NATO e che vogliamo portare il nostro paese fuori dalla NATO.
Per fare questo è necessario cacciare Draghi. Il movimento per la pace ha un nemico preciso, questo nemico è il governo Draghi. Finché permane questo governo non sarà possibile nessuna politica alternativa a quella che abbiamo oggi.
É la crisi del capitalismo che determina lo sviluppo della guerra. Per questo il movimento per la pace deve unirsi nella lotta a Draghi con tutte le altre mobilitazioni operaie e popolari presenti nel paese.
Per uscire dalla NATO serve un governo che faccia gli interessi delle masse popolari organizzate. Per arrivarci serve rafforzare e coordinare le organizzazioni operaie e popolari che già esistono e fare in modo che si diano questo obiettivo. Questo vuol dire cambiare i rapporti di forza, vuol dire candidarsi a prendere in mano il paese.
Per questo motivo anche il movimento per la pace deve convergere con le altre lotte, in particolare è importante che sia a Firenze il 26 marzo per la mobilitazione nazionale lanciata dal Collettivo di Fabbrica della GKN!
La strada aperta dagli operai GKN è quella della trasformazione possibile e necessaria nel nostro paese. Costruiamolo questo governo delle masse popolari organizzate! Fuori l’Italia dalla NATO!”

Nessuna giustificazione per l’attendismo!

Ancora sul lavoro che i comunisti italiani non possono appaltare a nessun altro

Sul numero 2/2022 di Resistenza (“A chi appaltare il lavoro dei comunisti italiani”) abbiamo criticato una tesi espressa da Massimiliano Ay, Segretario del Partito Comunista della Svizzera italiana. Poiché non ci sono le condizioni per fare la rivoluzione socialista nel nostro paese, bisogna prendere atto che i sommovimenti politici e sociali del mondo dipendono dallo scontro fra la Comunità Internazionale degli imperialisti, da una parte, e Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese dall’altra: è questa la contraddizione principale di questa epoca, dice Ay.

Torniamo sull’argomento perché Massimiliano Ay non è affatto l’unico a pensare così, la sua tesi ha riscontro e sostegno in un’ampia fetta di compagni che leggono la realtà odierna con gli occhi rivolti a un’epoca che non esiste più. Nel 2008 la crisi generale del capitalismo è entrata nella sua fase acuta e terminale, la borghesia imperialista non riesce più a governare il mondo come faceva prima. Siamo nel vivo di un’epoca di guerre imperialiste e di rivoluzioni socialiste, in cui le condizioni che alimentano la tendenza alla guerra imperialista sono esattamente le stesse che alimentano la rivoluzione socialista.

Nei paesi imperialisti, come l’Italia, la contraddizione principale della società è (e rimane) quella fra classe operaia e borghesia imperialista e l’instaurazione del socialismo è la direzione verso cui spinge la società: si tratta di un’esigenza storica che è all’ordine del giorno.

Il futuro del nostro paese, degli altri paesi e del mondo dipende da quanto i comunisti sono capaci di mettersi alla testa della mobilitazione che le masse popolari oppongono agli effetti della crisi generale per farla confluire nella rivoluzione socialista, oggi. Sono le masse popolari a fare la storia! Lo sono nei paesi imperialisti, lo sono negli ex paesi socialisti e lo sono anche nei paesi oppressi.

Anziché spingere le masse popolari a fare il tifo contro la NATO e per la Russia, è urgente e necessario che i comunisti si mettano in testa di usare – e fino in fondo – tutte le contraddizioni alimentate dalla crisi generale, quelle che la pandemia ha acutizzato e approfondito e quelle derivanti dalla guerra, per organizzare e mobilitare la classe operaia e le masse popolari.

Chi scambia l’attuale Federazione Russa per l’URSS di Stalin prende un granchio, come chi scambia l’attuale Repubblica Popolare Cinese per quella di Mao Tse-tung.
Attenzione, questo NON significa affatto che la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese siano paesi imperialisti come gli USA, la Germania, l’Italia, la Francia, ecc. Non lo sono e non possono esserlo! Sono paesi coinvolti nel processo di restaurazione del capitalismo in corso dal 1956 in URSS e dal 1976 in Cina, cioè da quando i revisionisti moderni hanno preso la direzione del movimento comunista.
Anche la strada che imboccheranno la Federazione Russa (che è nella fase della restaurazione del capitalismo “ad ogni costo”) e la Repubblica Popolare Cinese (che si trova, invece, nella fase della restaurazione graduale e relativamente pacifica del capitalismo) dipende dal grado di organizzazione e di mobilitazione delle masse popolari in Russia e in Cina. Cioè dipende dal movimento comunista cosciente e organizzato di quei paesi.
“Il corso delle cose dei prossimi anni sarà il risultato della risposta che nella pratica verrà data alle seguenti domande.
– Saranno i proletari cinesi con alla testa i comunisti che prenderanno in mano le grandi società ora dei capitalisti cinesi e conformeranno anche il resto dei rapporti sociali nella Repubblica Popolare Cinese alla gestione pubblica di tutta l’attività economica del paese pianificata nell’interesse della popolazione e della sua partecipazione alle attività specificamente umane o saranno i capitalisti cinesi che prenderanno in mano la direzione politica del paese?
– Saranno i proletari russi che rovesceranno il corso delle cose e con i comunisti russi alla loro testa riprenderanno il potere in Russia o saranno gli oligarchi a cancellare completamente quello che ancora resta nei rapporti sociali dell’eredità della costruzione del socialismo fatta nell’Unione Sovietica di Lenin e di Stalin?
– Saranno i proletari e i contadini dell’India con alla testa i comunisti indiani in grado di prendere il potere o l’India sarà nuovamente colonizzata questa volta dai gruppi imperialisti USA?
Questo significa che gli altri paesi non contano? Assolutamente no! Ogni paese avrà il suo peso nel corso delle cose. In particolare il primo paese imperialista che romperà la catene della Comunità Internazionale aprirà la via e mostrerà la strada della rivoluzione socialista alle masse popolari degli altri paesi imperialisti (dagli USA, ai paesi dell’Unione Europea, al Giappone, all’Australia)” – dal Comunicato del (nuovo)Partito Comunista Italiano del 27 febbraio 2022 “La situazione internazionale e la lotta di classe in Italia”.

Contro il caro-vita autoriduzione delle bollette

Pubblichiamo un estratto dell’intervista “Autoriduzioni contro il carovita”, rilasciata al Direttore di Resistenza, Pablo Bonuccelli, da Marco De Guio dell’Unione Inquilini di Sesto San Giovanni (MI). La versione integrale è pubblicata sul canale Spotify “Cronache di Resistenza”.

A seguire la risposta di Marco alla domanda: “A partire dalla tua esperienza, cosa pensi si possa fare oggi a fronte dell’ingiustificato aumento delle bollette dell’energia?”

“Come Unione Inquilini ne stiamo discutendo, anche se non ho avuto ancora il tempo di approfondire in modo sufficiente l’argomento. Quello che abbiamo imparato dalla nostra esperienza è che, se andremo a proporre l’autoriduzione delle bollette, dovremo farlo nei quartieri dove c’è un minimo di organizzazione, dove siamo già presenti e conosciuti, dove ci sono punti di riferimento e delegati che in qualche modo riescono a tenere insieme gli abitanti del quartiere.

L’altro aspetto importante è riuscire a individuare obiettivi praticabili. La bolletta elettrica e del gas sono formate da tante voci e una di quelle che secondo noi è possibile abolire per rendere gli importi più sopportabili è l’IVA, che il governo sembra già intenzionato a ridurre.

Infatti l’IVA non c’è sempre stata (è stata introdotta nel 1972-ndr). Inoltre è contraria alla normativa italiana, che prevede che ognuno paghi secondo le sue possibilità. Quindi la tassazione dev’essere progressiva. In pratica vuol dire che la percentuale destinata alle tasse deve aumentare con l’aumentare del reddito. È un principio che, fin da quando è stato introdotto, i governi tentano di eludere. Basti pensare che negli anni Settanta i redditi più alti arrivavano a pagare il 75% di tasse, adesso pagano al massimo il 35-36%.

Quando venne introdotta l’IVA ci fu un grande dibattito anche a livello sindacale. Perché l’IVA non è una tassa progressiva, è una tassa fissa. Il 20% lo paga il lavoratore così come lo paga Agnelli. Vuol dire che è sproporzionata: i ricchi di fatto pagano meno.

Pensiamo che questo sia il momento buono per riprendere il dibattito su cosa è giusto pagare e quali forme di tassazione sono da applicare, a partire dalle bollette energetiche. Questo anche per impedire le speculazioni. Infatti, con gli incrementi di valore delle bollette lo Stato ha incamerato un sacco di soldi in più. Al raddoppio della spesa, raddoppia l’importo dell’IVA: lo Stato incassa sempre il 20%, ma sul doppio del valore. Allora se autoriduciamo l’IVA del 50% non facciamo nient’altro che riportarla al valore assoluto di partenza. L’IVA potrebbe essere una di quelle cose a cui mettere mano…

(…) Non possiamo fare battaglie di principio. Nei quartieri di edilizia pubblica dobbiamo arrivare con parole d’ordine comprensibili, che siano praticabili e indichino obiettivi raggiungibili. Poi certo dipenderà dalla forza che riusciremo ad esprimere. Sono convinto che questo sia uno degli elementi importanti nella fase attuale.

Certo la difesa del salario oggi vuol dire anche avviare una lotta per l’autoriduzione delle bollette, ma su come farlo occorre discutere. Oggi potremmo essere in grado non tanto di ritirare le bollette e sospendere completamente il pagamento, ma piuttosto di riformulare l’entità della bolletta. Si possono stampare bollette con gli stessi riferimenti, per quanto riguarda i conti correnti su cui versare le cifre, modificando però le voci degli importi e tenendo la contabilità di quello che succede.

(…) Di esperienze come sindacato ne abbiamo fatte nel passato. Per esempio, in uno stabile di Cologno Monzese (MI) abbiamo promosso l’autoriduzione delle spese, perché erano gonfiate e perché il Comune non era in grado di gestire il caseggiato. Per 16 anni abbiamo gestito questa autoriduzione. Certo con un sacco di angosce, perché complessivamente eravamo arrivati – allora c’erano le lire – a centinaia di milioni di autoriduzione. La cosa però si è conclusa positivamente: quando andarono a vendere il patrimonio, quelle cifre che noi contestavamo ci furono riconosciute e scalate dal prezzo di acquisto. Ci sono famiglie che hanno portato a casa 20-25 milioni di autoriduzione. Abbiamo vinto, perché siamo riusciti a resistere 16 anni.

In questi giorni chiudiamo una vertenza sulle spese delle case comunali, parliamo anche in questo caso di 15 anni di vertenza. Avevamo ragione. Siamo riusciti a portare il Comune di fronte al giudice e hanno capito che avrebbero perso in una causa vera e propria. A quel punto, l’amministrazione comunale ha conciliato accettando di abolire il sistema di pagamento delle spese a canone (che era stato in vigore per 10 anni) ricalcolando le spese in base ai criteri previsti dalla normativa vigente (…) Quello che ci ha permesso di vincere è stata, anche in questo caso, la nostra costanza, una costanza durata anni. Ma questa cosa la puoi fare solo se hai una presenza organizzata. Non puoi pensare di giocarti il tutto per tutto in poche settimane o pochi mesi, non funziona così la realtà”.

Il socialismo non verrà da solo – La rivoluzione socialista non scoppia, bisogna costruirla!

Cari compagni della Redazione di Resistenza, con questa lettera spero di arrivare ai vostri lettori più giovani.

Qualche giorno fa ho ascoltato sul podcast del vostro Direttore, Pablo Bonuccelli, l’intervista a Yung Stalin, fondatore e musicista della P38 Gang, un gruppo musicale con un messaggio molto esplicito e fortemente legato alla storia del movimento comunista.
Da essa emerge bene, a mio parere, che una parte dei giovani del nostro paese si rifà agli ideali del comunismo, odia e denuncia le storture del capitalismo, immagina il socialismo come l’ordinamento sociale in grado di consegnarci un futuro dignitoso, luminoso.
Allo stesso tempo traspare, però, con altrettanta evidenza che ritengono il socialismo un’ipotesi remota, qualcosa che semmai si realizzerà, riguarderà un tempo per loro ancora troppo lontano e quindi…
Quindi, talvolta ci si spende nella lotta contro le storture del capitalismo, ma per il resto del tempo che fare? Si viene quasi inevitabilmente attratti dalle sirene della borghesia, si soccombe ai suoi vizi, alle sue abitudini più arretrate.

Si finisce magari col fare uso di qualche droga o di alcool per evadere dal cattivo presente, per non pensare alle brutture della vita. Oppure si cerca affannosamente di ritagliarsi, magari con lo studio, la propria nicchia in questa società. E se per farlo occorre “fare le scarpe” a chi è sulla nostra stessa barca e “vendersi l’anima al diavolo”, tant’è! Così va la vita.

È a questi giovani che si definiscono comunisti, ma che pensano che il socialismo sia troppo lontano, che non dipende in fondo da loro costruirlo, che mi rivolgo.

Mi rivolgo a voi per dirvi che il nostro Partito, in cui militano già tanti vostri coetanei, coltiva l’ambizione e ha l’obiettivo di rendervi protagonisti dell’impresa di fare dell’Italia un paese socialista; rendervi protagonisti di una causa capace di dare un senso alla vostra vita, capace di sottrarvi al malessere che vivete nel dover accettare lo status quo, fatto di miseria morale e materiale, di devastazione dell’ambiente e ora sempre più anche di guerra.

Una soluzione per rivoluzionare il mondo noi ce l’abbiamo e ve la offriamo. Abbiamo il dovere di farlo, di dirvi che il socialismo può non essere così lontano se ci organizziamo per costruirlo: compagni, porre le basi del nuovo mondo dipende da ognuno di noi!

Prima però, un breve inciso per chiarire la posizione del P.CARC sull’uso e la diffusione della droga nella società in cui viviamo: non temete, non voglio farvi la paternale. Ma la questione è complessa e non è possibile ridurla alla diatriba “la droga fa bene o fa male… le droghe pesanti no, quelle leggere sì”. Il punto è che la droga è uno strumento potentissimo nelle mani della borghesia, che la usa per distogliere voi giovani (ma anche chi giovane non lo è più) dalla lotta di classe, per paralizzare le vostre più sane energie. Oggi, che il movimento comunista cosciente e organizzato è ancora debole, la borghesia usa la droga come uno degli strumenti capaci di ostacolare il suo rafforzamento.

Quando negli anni Settanta il movimento comunista cosciente e organizzato era forte, la borghesia ha usato anche la droga per stroncarlo, approfittando dei limiti e degli errori che avevano portato il movimento a “rifluire”. Ma questo molti di voi già lo sanno.

Il punto nodale è: come riempire “il vuoto” che c’è dentro voi, quel vuoto che la droga attutisce ma non colma, quel vuoto causato dal senso d’impotenza di fronte a un mondo che odiate e disprezzate?

Il punto per voi è capire che fare qui e ora, per noi dare una risposta a questa domanda.

Per fare la rivoluzione socialista bisogna che gli operai e gli altri lavoratori si organizzino (oggi, non domani!) costituendo organizzazioni operaie nelle aziende capitaliste, organizzazioni popolari nelle aziende pubbliche, nei quartieri, nelle scuole. E queste organizzazioni devono agire da nuove autorità pubbliche che lottano per adottare misure d’emergenza, devono coordinarsi tra loro, rendere il paese ingovernabile ai vertici della Repubblica Pontificia, costituire un loro governo d’emergenza, il Governo di Blocco Popolare (GBP). La costituzione del GBP sarà un passo in avanti nell’instaurazione del socialismo in Italia.

La rivoluzione socialista è un’impresa che non si fa lavorando a caso, a buon senso. La rivoluzione socialista è una scienza che si impara, si applica e si sviluppa facendo il bilancio dell’esperienza, è una scienza sperimentale come le altre scienze. Questa scienza, che ha le sue fondamenta nel materialismo dialettico, permette a chi la assimila di comprendere a fondo le condizioni, le forme e i risultati della lotta delle classi sfruttate e dei popoli oppressi e di portarla avanti fino alla vittoria.

È applicando questa scienza che il Partito comunista russo di Lenin e Stalin guidò le masse popolari russe ad approfittare con successo della Prima Guerra Mondiale scatenata dalle potenze imperialiste, a fondare l’Unione Sovietica, a scatenare la prima ondata della rivoluzione proletaria che mobilitò le masse popolari e i popoli oppressi di tutti i paesi e cambiò il volto di tutto il mondo. È l’uso di questa scienza che portò alla fondazione della Repubblica Popolare Cinese guidata da Mao Tse-tung e di altri paesi socialisti. È la mancata assimilazione e uso di questa scienza che impedì ai partiti comunisti dei paesi imperialisti, come il primo PCI di Gramsci, di fare la rivoluzione socialista nei paesi imperialisti.

La Carovana del (nuovo)PCI, di cui noi del P.CARC siamo parte, ha tratto gli insegnamenti della prima ondata della rivoluzione proletaria, ha individuato i limiti che impedirono di instaurare il socialismo e i rimedi da adottare, i passi avanti da compiere nella scienza della rivoluzione socialista e nella sua applicazione nel nostro paese.

È partecipando a questa impresa che colmerete “il vuoto” di cui vi ho parlato. Chi di voi si dedicherà ad essa dando il meglio di cui è capace contribuirà a costruire per l’umanità un futuro degno di essere vissuto, un futuro luminoso, il socialismo.

Chi di voi si dedicherà a questa impresa, che può iniziare con l’adesione al nostro Partito, trasformerà a poco a poco anche il proprio modo di pensare, i propri sentimenti, desideri, comportamenti aprendo così la strada “all’uomo nuovo” protagonista della società socialista.

Chiudo questa lettera con un brano che rende bene in che senso il socialismo è possibile ORA. è una citazione un comunicato del (nuovo)PCI intitolato “Organizzarsi e combattere a modo nostro fino a vincere”:

“Il socialismo inizia semplicemente utilizzando più razionalmente le forze produttive esistenti e organizzando in modo più dignitoso il lavoro necessario. Occorre che le aziende smettano di esistere per produrre profitti; che diventino istituzioni pubbliche incaricate di produrre beni e servizi utili alla popolazione; che formino un sistema in cui ogni azienda svolge un ruolo simile a quello che oggi svolge un reparto in una grande azienda. Le aziende non devono chiudere: le aziende che oggi fanno produzioni inutili, inquinanti o nocive, devono essere trasformate e adibite a lavorazioni utili e necessarie. Il lavoro deve diventare un diritto e un dovere per ogni adulto sano, una funzione civile come l’istruzione. Non fare la propria parte di lavoro deve diventare per ogni individuo un reato come l’omissione di soccorso.

L’energia di ogni persona deve essere indirizzata a dare il massimo contributo che egli può dare alla vita della società. L’attività economica deve essere pianificata per soddisfare i bisogni socialmente riconosciuti di tutta la popolazione e di ogni individuo. Insomma occorre eliminare la proprietà capitalista e instaurare un nuovo ordinamento sociale. Bisogna eliminare lo Stato dei capitalisti e instaurare un nuovo Stato basato sui lavoratori organizzati. Allora tutto diventa possibile e relativamente facile”.

Avanti compagni, aderite al P.CARC, costruite il futuro conquistando il presente!

Il responsabile nazionale del Settore Organizzazione del Partito dei CARC
Ermanno Marini

A 77 anni dalla vittoria della Resistenza – Contro il revisionismo: i partigiani non combattevano per la NATO

Accostare la Resistenza al nazifascismo e quanto accade in Ucraina è revisionismo storico funzionale alle manovre di guerra del governo Draghi: non facciamolo passare!

Uno degli argomenti più usati per giustificare le manovre di guerra del governo Draghi, le sanzioni alla Federazione Russa e l’invio di armi al governo di Zelensky, è il paragone tra la Resistenza italiana al nazifascismo e quanto sta accadendo in Ucraina. I giornali borghesi titolano: “Ucraini come i partigiani”. Nei dibattiti pubblici, politici e commentatori asserviti alla classe dominante argomentano: “così come è stato giusto in passato il sostegno degli angloamericani alla Resistenza in Italia, è giusto oggi il sostegno dell’Italia al governo ucraino”. Il corollario è: chi fa propri i valori della Resistenza non può che appoggiare la politica di sostegno del governo Draghi e della NATO alla “lotta del popolo ucraino contro l’invasore”.

La realtà è che questa non è nient’altro che propaganda di guerra, sono ragionamenti faziosi utili ad intorbidire le acque, a fare leva sui sentimenti antifascisti delle masse popolari per guadagnare consenso ai progetti di guerra degli imperialisti USA e UE. Non è possibile nessun paragone tra la lotta di Liberazione dal nazifascismo condotta nel nostro paese e l’attuale conflitto in Ucraina: sono eventi di natura diversa e anzi opposta.

La Resistenza al nazifascismo è stato il punto più alto raggiunto finora nel nostro paese dalla classe operaia nella sua lotta per il potere.

È stata una guerra preparata, promossa, organizzata e diretta dal PCI, che era il centro propulsore della coalizione di partiti antifascisti riuniti nel CLN. Senza i comunisti, senza il legame che essi avevano costruito con la classe operaia e le masse popolari in vent’anni di durissima lotta clandestina contro il regime fascista, senza l’esperienza maturata nella guerra di Spagna del 1936, senza la prospettiva rivoluzionaria che il PCI indicava ai lavoratori e che viveva nell’esempio dell’Unione Sovietica — senza tutto questo non ci sarebbe stata nessuna Resistenza.

La guerra di Liberazione fu il proseguimento della politica dei comunisti nei decenni precedenti. Una politica che non era semplicemente di difesa nazionale, ma rivoluzionaria, che mirava cioè ad abbattere il regime esistente e a condurre la classe operaia a prendere il potere. La Resistenza non fu solo una guerra contro l’invasore, fu lotta per sovvertire il sistema politico e sociale del paese; fu la guerra dei lavoratori italiani contro quella classe dominante che aveva voluto il regime fascista per reprimere nel sangue il movimento operaio, spaventata com’era dalla Rivoluzione d’Ottobre e dal Biennio Rosso degli anni 1919-20.

La stragrande maggioranza dei lavoratori vi ha preso parte convinta che fosse l’occasione per farla finita col fascismo, con i padroni che lo sostenevano, con lo sfruttamento e la miseria. La parte più avanzata vi partecipò con l’intenzione di “fare come in Russia”, di fare cioè la rivoluzione socialista. La Resistenza fu una lotta di massa della classe operaia, che vi contribuì con gli scioperi del ‘43 e ‘44 (gli unici nell’Europa occupata dal nazifascismo), con il sabotaggio sistematico dell’industria bellica, partecipando con i suoi elementi migliori alle brigate partigiane di montagna e di città e alla costruzione della rete di CLN in ogni azienda e rione popolare.

Data la forza della classe operaia in armi diretta dal PCI, gli imperialisti angloamericani non potevano condurre la campagna militare in Italia senza fare i conti con la Resistenza. L’hanno sostenuta militarmente ed economicamente, ma sempre in modo ambiguo, con l’obiettivo di tenerla sotto controllo: la loro preoccupazione principale era impedire che l’influenza dei comunisti si rafforzasse e si estendesse.

Se la Resistenza si concluse con l’occupazione del paese da parte degli USA e non con la rivoluzione socialista, fu per i limiti dei comunisti. La sinistra, la parte più dedita alla causa rivoluzionaria, non seppe elaborare una strategia per avanzare verso la rivoluzione dopo la vittoria sui nazifascisti. Lasciò così campo libero alla linea revisionista capeggiata da Togliatti, che si impose alla guida del partito, portando i comunisti a disperdere nel dopoguerra le posizioni conquistate con la Liberazione.

Al contrario la “resistenza ucraina” è promossa da un regime installato dagli imperialisti USA e dalla NATO nel 2014 con il colpo di Stato di Euromaidan all’interno della strategia di accerchiamento della Federazione Russa. Non ha obiettivi rivoluzionari, non punta a trasformare la società, a farla finita con gli oligarchi che hanno svenduto il paese agli imperialisti, a mobilitare la classe operaia e le masse popolari per la propria emancipazione. Al contrario, è alimentata da forze apertamente naziste e ha l’obiettivo di difendere il regime attuale e la sua politica, i cui punti fondanti sono: adesione dell’Ucraina alla NATO e all’UE; persecuzione delle popolazioni russofone e rifiuto dell’autonomia delle regioni del Donbass; persecuzione dei comunisti, dichiarati fuorilegge fin dal 2015. La vittoria di questa “resistenza” non porterebbe alla vittoria delle masse popolari ucraine, ma solo alla completa svendita del loro paese agli imperialisti USA e UE; si tradurrebbe in un aggravamento ulteriore della politica anticomunista e antipopolare in favore di forze dichiaratamente naziste.

Non esiste quindi alcun paragone possibile fra la Resistenza al nazifascismo nel nostro paese e quella promossa dal governo ucraino contro la Russia e non c’è nessuna legittimità nell’invio di armi italiane. Il sostegno del governo Draghi al governo ucraino è la manifestazione della sottomissione dell’Italia alla NATO e alla UE. L’invio delle armi è partecipazione alla guerra imperialista.

Riprendere il testimone che la Resistenza ci ha consegnato significa liberare il nostro paese proprio dal governo Draghi e dai poteri forti di cui esso è espressione; vuol dire liberarlo da chi alimenta la guerra imperialista e fa delle masse popolari (italiane, russe, ucraine, statunitensi, francesi, ecc.) carne da macello e da cannone.

“Dopo avere collaborato col regime fascista per anni, quando alla fine entrarono in guerra con esso, le loro truppe avanzarono nel nostro paese mettendolo a ferro e a fuoco, radendo al suolo città e paesi, saccheggiando e terrorizzando la popolazione mentre nel contempo lesinarono i rifornimenti ai partigiani, cercarono in ogni modo di mettere le formazioni partigiane l’una contro l’altra, di fomentare divisioni, di creare formazioni di disturbo e in generale di indebolire e liquidare il movimento partigiano, conducendo nei suoi confronti una guerra sorda e non dichiarata che culminò nel disarmo dei partigiani e nella persecuzione individuale di essi portata poi avanti dal regime DC e di tanto in tanto ripresa ancora anche ai giorni nostri”.
Il punto più alto raggiunto finora nel nostro paese dalla classe operaia nella sua lotta per il potere, Edizioni Rapporti Sociali, 1995, Milano

Lenin: posizioni di principio sul problema della guerra

Il 22 aprile cade il 152° anniversario dalla nascita di Lenin. In quest’occasione pubblichiamo degli stralci dal suo articolo “Questioni di principio sulla guerra” (scritto in tedesco nel dicembre 1916, estratto da Opere complete, vol. 23, traduzione rivista sull’originale – testo reperibile anche sul sito del (nuovo)PCI), in cui Lenin si rivolge ai membri del Partito Socialdemocratico Svizzero, alla cui attività partecipò tra il 1914 e il 1917, nel periodo del suo esilio in quel paese.
Li pubblichiamo in una fase in cui il problema della guerra imperialista è tornato con forza all’ordine del giorno e una martellante propaganda di regime punta a intrupparci nel conflitto contro la Federazione Russa presentandolo come uno scontro tra libertà e dittatura, tra giustizia e tirannia, tra “i sani valori occidentali” e la barbarie.
Compito dei comunisti è rigettare questa narrazione, mostrare la natura imperialista del conflitto, mobilitare le masse popolari contro le manovre interventiste del governo, trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria. Si ripropone oggi, in definitiva, il compito cui i bolscevichi di Lenin, a loro tempo, seppero assolvere con successo, dando il via alla prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale. La linea che i comunisti devono mettere in campo, ai nostri giorni, non può che partire dai principi che Lenin ha indicato.
Certo, è sbagliato guardare all’esperienza della rivoluzione bolscevica in maniera dogmatica: l’Italia del 2022 non è la Russia del 1917, né il conflitto in Ucraina è sovrapponibile alla Grande Guerra. Ma è anche sbagliato pensare che i principi elaborati da Lenin in quel contesto non abbiano più niente da dirci. Il sistema sociale in cui viviamo, pur con tutti i cambiamenti intercorsi, resta il medesimo: il capitalismo nella sua fase imperialista (vedi l’articolo “Cos’è l’imperialismo” sul numero 3/2022 di Resistenza). Oggi come allora la borghesia imperialista porta l’umanità al massacro, perché non ha altra soluzione alla crisi generale del suo sistema che la “guerra rigeneratrice”. Oggi come allora, la rivoluzione socialista è la sola alternativa alla guerra imperialista.
Nell’articolo non troveremo quindi bella e pronta la ricetta per affrontare la situazione attuale. Elaborare la linea concreta per intervenire in questa situazione concreta è compito dei comunisti italiani di oggi, ed è cosa che non può essere demandata in nessun modo al solo studio dei “classici”. Troveremo però in questo studio principi universali, che sono giusti perché verificati nella pratica della lotta di classe; principi che devono essere la stella polare a cui guardare per determinare la nostra rotta nella situazione attuale.

Tra i socialdemocratici svizzeri di sinistra esiste una posizione unanime riguardo alla necessità di respingere, in rapporto alla guerra attuale, il principio della difesa della patria. (…) Eppure, se si esamina il problema più da vicino, si finisce inevitabilmente per concludere che questa unità è solo apparente. (…)
Esaminiamo con cura e in dettaglio cosa significa rifiutare di difendere la patria, se lo consideriamo una parola d’ordine politica da prendere sul serio, che dobbiamo realizzare in concreto.

1.In primo luogo, noi chiamiamo i proletari e gli sfruttati di tutti i paesi belligeranti e di tutti i paesi minacciati dalla guerra a rifiutare la difesa della patria. Oggi, attraverso l’esperienza di vari paesi belligeranti, noi sappiamo con assoluta precisione che cosa significa in realtà il rifiuto di difendere la patria nella guerra in corso. Significa negare tutti i fondamenti della moderna società borghese e minare alle radici il regime sociale vigente [perché la guerra attuale è il suo sbocco inevitabile e non è possibile non fare la guerra ma mantenere in vita la moderna società borghese]; questo non solo in teoria, non solo “in generale”, ma nella pratica, immediatamente. Ebbene, non è forse evidente che questo può farsi solo alla condizione non solo di essere giunti nel campo della teoria alla saldissima convinzione che il capitalismo è ormai pienamente maturo per essere trasformato in socialismo, ma anche di essere andati oltre e di ritenere che questa trasformazione, cioè la rivoluzione socialista, è realizzabile in pratica, immediatamente, subito?
Eppure, quando si parla del rifiuto di difendere la patria quasi sempre si trascura proprio questo punto. Nel migliore dei casi si riconosce “teoricamente” che il capitalismo è maturo per essere trasformato in socialismo, ma non si vuole nemmeno sentir parlare dell’immediato e radicale rinnovamento di tutta l’attività del partito per renderla adeguata ai compiti della rivoluzione socialista imminente!
Si obietta che il popolo non sarebbe ancora preparato!
Ma qui siamo di fronte a una incongruenza perfino ridicola. Delle due l’una.
O noi non dobbiamo proclamare il rifiuto immediato di difendere la patria, oppure noi dobbiamo svolgere o cominciare a svolgere immediatamente un’azione metodica di propaganda per la realizzazione immediata della rivoluzione socialista. Beninteso, in un certo senso il “popolo” è “impreparato” sia al rifiuto di difendere la patria sia alla rivoluzione socialista. Ma da ciò non consegue che noi abbiamo il diritto di rimandare per ben due anni – due anni! – l’inizio della preparazione sistematica della rivoluzione (Lenin si riferisce al periodo trascorso tra l’agosto 1914, quando iniziò la Prima Guerra Mondiale e il dicembre del 1916)!

2.In secondo luogo, cosa si oppone alla politica della difesa della patria e della pace sociale? La lotta rivoluzionaria contro la guerra, le “azioni rivoluzionarie di massa”. Così è riconosciuto nella risoluzione del congresso del partito tenuto ad Aarau del novembre 1915. Si tratta, senza dubbio, di una risoluzione eccellente, ma… ma la storia del partito dopo quel congresso, la sua condotta effettiva mostrano che questa risoluzione è rimasta sulla carta!
Qual è l’obiettivo della lotta rivoluzionaria di massa? Ufficialmente il partito non ha detto niente al riguardo e in generale non si parla affatto di questo problema. Si considera del tutto naturale o si riconosce apertamente che l’obiettivo [della lotta rivoluzionaria di massa] è il “socialismo”. Al capitalismo (o all’imperialismo) si contrappone il socialismo.
(…) Ma oggi non si tratta di contrapporre genericamente due sistemi sociali. Si tratta invece di opporre la pratica concreta della concreta “lotta rivoluzionaria di massa” ad un male concreto, cioè all’odierno rincaro della vita, all’odierno pericolo di guerra o alla guerra in corso. (…)
L’oggetto concreto della “lotta rivoluzionaria di massa” può consistere soltanto nelle misure concrete della rivoluzione socialista, non nel “socialismo” in generale.
I compagni olandesi nel loro programma, pubblicato nel n. 3 del Bollettino della Commissione socialista internazionale (Berna, 29 febbraio 1916), hanno indicato con precisione queste misure concrete: annullamento dei debiti dello Stato (del debito pubblico), espropriazione delle banche, espropriazione di tutte le grandi imprese. (…)

3.In terzo luogo, il partito ha “riconosciuto” che occorre la lotta rivoluzionaria di massa. Benissimo! Ma è capace il partito di promuovere e dirigere una lotta rivoluzionaria di massa? Si sta preparando a questo compito? Studia questi problemi, raccoglie il materiale necessario? Crea organizzazioni e organismi adeguati? Discute questi problemi in mezzo al popolo, con il popolo?
Niente di tutto questo! Il partito continua ostinatamente e senza deviare d’un passo a procedere sulla sua vecchia carreggiata esclusivamente parlamentare, sindacale, riformista, legalitaria. Il partito continua a essere incontestabilmente incapace di promuovere e dirigere la lotta rivoluzionaria di massa. È chiaro e noto a tutti che il partito non si prepara affatto a questo compito. (…)
Quasi tutti sono pronti ad accettare la lotta rivoluzionaria contro la guerra. Ma si deve pur immaginare l’immensità del compito di mettere fine a questa guerra con la rivoluzione! No, non è un’utopia! La rivoluzione sta avanzando in tutti i paesi. Oggi non si tratta più di scegliere tra continuare a vivere in maniera tranquilla e sopportabile o buttarsi invece nell’avventura. Oggi si tratta di decidere se continuare a soffrire la fame ed essere mandati al massacro per interessi estranei, per gli interessi di altri, o se fare invece grandi sacrifici per il socialismo, per gli interessi dei nove decimi dell’umanità.
(…) Non possiamo sapere in anticipo quanto tempo sarà necessario per avere la meglio, quando cioè le condizioni oggettive consentiranno la vittoria di questa rivoluzione. Dobbiamo quindi sostenere ogni minimo miglioramento, ogni miglioramento effettivo della situazione economica e politica delle masse. La differenza tra noi e i riformisti non sta nel fatto che noi siamo contrari e loro sono favorevoli alle riforme. Non è questo il punto. La realtà è che essi si limitano alle riforme e quindi si degradano alla semplice funzione di “infermieri del capitalismo” (…). Noi invece diciamo agli operai: votate pure per la proporzionale, ecc. ma non limitate a questo la vostra attività. Mettete piuttosto in primo piano la propaganda sistematica dell’idea della rivoluzione socialista immediata. Preparatevi a questa rivoluzione e operate a tale scopo i cambiamenti profondi che si rendono necessari in tutta l’attività del partito! Le condizioni della democrazia borghese ci costringono troppo spesso ad assumere questa o quella posizione su tutta una serie di piccole e minute riforme. Ma bisogna saper prendere o imparare a prendere posizione a favore delle riforme in modo tale che – per dirla in termini alquanto semplificati onde essere più chiari – in ogni nostro discorso della durata di mezz’ora dedichiamo cinque minuti alle riforme e venticinque alla rivoluzione imminente.
La rivoluzione socialista non può essere realizzata, se non si combatte un’accanita lotta rivoluzionaria di massa, una lotta che costa molti sacrifici. Ma sarebbe incoerente accettare la lotta rivoluzionaria di massa, riconoscere come giusta l’aspirazione a metter fine subito alla guerra e al tempo stesso respingere la rivoluzione socialista immediata! La prima senza la seconda sarebbe soltanto parole a vuoto!