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QUEI 7 MILA ADDETTI CHE NON POSSONO TROVARE IMPIEGO A MILIONI DI DISOCCUPATI

CENTRI PER L’IMPIEGO. Impietoso il confronto col resto d’Europa: molte sedi senza internet specie al Sud

Una coda di disoccupati ad un Centro per l’impiego
https://ilmanifesto.it/quei-7mila-addetti-che-non-possono-trovare-impiego-a-milioni-di-disoccupati

Massimo Franchi

I Centri per l’impiego sono stati istituti nel 1997, sostituendo gli Uffici di collocamento in una stratificazione di normative e competenze che ne ha progressivamente incancrenito il ruolo. In Italia sono 556 e hanno 8 mila dipendenti. Sono di competenza esclusiva regionale e avrebbero il compito di far incontrare domanda e offerta di lavoro sul territorio. Il condizionale è confermato dai dati: le stime parlano di circa 2 milioni di disoccupati che ogni anno si rivolgono ai Cpi, ma solo 37mila trovano un lavoro.
Il rapporto «Monitoraggio sulla struttura e il funzionamento dei servizi per il lavoro 2017» dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, ha valutato i Centri per l’impiego in profondità: «Nel complesso, la rete pubblica dei servizi per il lavoro è composta da 501 Cpi che definiamo “principali” (…) da cui dipendono complessivamente 51 sedi secondarie e a cui si aggiungono 288 sedi distaccate».
Secondo l’Anpal nel 2016 hanno avuto almeno un contatto con un Centro per l’impiego 2.849.086 persone, mentre l’Istat nell’«Indagine conoscitiva sul funzionamento dei servizi pubblici per l’impiego in Italia e all’estero», presentata dal suo ex presidente Giovanni Alleva lo scorso 18 luglio in Senato stimava che nel 2017 siano state 1,91 milioni le persone che si sono rivolte ai Cpi suddividendole a loro volta in 1,234 milioni di disoccupati e 676 mila di cosiddetti inattivi o forze di lavoro potenziali, persone che non hanno cercato un lavoro di recente. La differenza nelle due valutazioni è dovuta al fatto che l’Anpal conteggia anche altre categorie come i lavoratori che hanno già un’occupazione e vogliono semplicemente migliorarla e anche gli «inattivi» che sono costretti a rivolgersi ai Cpi anche se non vogliono cercare lavoro. Secondo l’Istat «il ricorso al Cpi è stato ritenuto utile solamente dal 2,4% degli intervistati».
In vista dell’entrata in vigore del Reddito di cittadinanza il loro ruolo dei Centri per l’impiego sarà fondamentale: la legge di bilancio ha previsto 4mila nuove assunzioni e 480 milioni di nuovi finanziamenti per potenziarne la rete.
Il quadro odierno della struttura dei Cpi è desolante. Sulla rete dei 501 Centri per l’impiego principali infatti la metà risulta avere dotazioni informatiche insufficienti: ben il 72% dei Cpi del Sud e delle isole ha computer vecchi e addirittura alcuni di questi è privo di collegamento internet. Per gli organici c’è un problema quantitativo e qualitativo. Confrontare il numero dei dipendenti italiani – 7.934 dipendenti – con i maggiori paesi europei – 98.739 addetti della Germania, i 74.080 del Regno Unito, i 54mila della Francia e gli 8.945 della Spagna – spiega molto della quasi impossibilità di fornire un servizio decenti. Anche la qualità dei dipendenti è carente: per effetto del blocco del turn over ha un’età avanzata, una scarsa dimestichezza con il digitale, abitudine a svolgere compiti puramente burocratici, non hanno avuto la formazione necessaria per rispondere alle nuove sfide delle politiche attive. «I centri per l’impiego – si legge nel rapporto dell’Anpal – realizzano un servizio incentrato in un set minimo di azioni, quasi esclusivamente limitato alla presa in carico dell’utenza». Mettendo sotto la lente le tipologie di professionalità mancanti, gli operatori amministrativi sono poco più di un quarto delle richieste di personale aggiuntivo, in gran parte dei casi si lamenta invece il vuoto di figure specialistiche, gli orientatori in primis (circa il 34% delle richieste), gli esperti in consulenza aziendale (14%) e i mediatori culturali (11%).
Nella suddivisione geografica ben 190 si trovano al Sud e nelle isole, mentre solo 93 al Centro. Nord-Est e Nord-Ovest ne hanno entrambi 109. Anche il personale risulta per la maggior parte al Sud (3.895 dipendenti) rispetto ai soli 1.048 del Nord-Est, dove però c’è il più alto rapporto fra operatori di front office – allo sportello – sul totale degli operatori.

Fonte: Il Manifesto

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università degli Studi di L’Aquila, ideologo e consulente tecnico movimento ambientalista Ultima Generazione A22 Network e membro attivo della Fondazione Michele Scarponi Onlus

DELOCALIZZAZIONI E REDDITO DI CITTADINANZA

https://www.carc.it/2022/12/28/delocalizzazioni-e-reddito-di-cittadinanza/

di Teresa Noce – Dicembre 28, 2022

La posta in gioco è un lavoro utile e dignitoso per tutti

Per ragioni di spazio, in questo articolo tralasciamo volutamente analisi e riflessioni sull’utilizzo ricattatorio che le autorità e i padroni hanno fatto e fanno del Reddito di Cittadinanza (RdC).

Ricordiamo solo un episodio per chiarire il concetto: nell’ottobre 2020, a Torino furono arrestati dei ragazzi durante una manifestazione contro la criminale gestione della pandemia da parte del governo (all’epoca era il Conte 2), alle famiglie degli arrestati minorenni il tribunale affibbiò la revoca del RdC come pena “per non aver saputo educare i figli”.

Per le stesse ragioni di spazio, tralasciamo anche la ricostruzione delle manovre che le istituzioni hanno promosso per rendere il RdC completamente inefficace ad assolvere il compito di avviare al lavoro i percettori: pubblicammo sul numero 3/2022 di Resistenza l’intervista a un navigator che chiarisce, perfettamente, il boicottaggio del RdC da parte di quelle stesse istituzioni che avrebbero dovuto garantirne il funzionamento e a quella rimandiamo. Ci concentriamo, invece, su tre questioni che conducono tutte alla seguente conclusione: la mobilitazione contro l’abolizione del RdC può svilupparsi efficacemente solo se diventa parte della mobilitazione più generale contro il governo Meloni, contro il sistema politico delle Larghe Intese e per la costituzione di un governo di emergenza popolare. E del resto, nessun organismo, partito e movimento che aspira alla trasformazione del paese può prescindere dalla lotta contro l’abolizione del RdC e per la creazione di posti di lavoro utili (che servono alla società) e dignitosi (per paga, condizioni di lavoro e diritti).

Il cortocircuito del RdC

Il RdC, con tutti i limiti della sua gestione e applicazione, è l’unica misura economica a favore delle masse popolari povere che un governo italiano abbia varato negli ultimi 40 anni! Per la classe dominante – Confindustria e associati in testa – è stato un boccone indigesto. Non solo perché il RdC ha posto un limite alla concorrenza al ribasso fra disoccupati e alla costante precarizzazione del lavoro, ma anche perché ha mandato in cortocircuito la pluridecennale propaganda di regime: con la sua introduzione ha reso evidente che il leitmotiv “non ci sono i soldi” per misure a sostegno delle masse popolari è una spudorata menzogna. I soldi ci sono eccome! Li ha trovati, all’epoca, il governo Conte 1, motivo per cui è diventato per il padronato italiano il nemico da abbattere.

Oggi che il governo Meloni manovra per abolire il RdC, ecco un altro cortocircuito nella propaganda di regime: i soldi “risparmiati” saranno forse dirottati per politiche attive per il lavoro? No. Per la scuola pubblica? No. Per la manutenzione e messa in sicurezza dei territori? Macché! Saranno “dispersi” fra le coperture per i condoni fiscali, la flat tax, l’aumento delle spese militari e l’invio di armi all’Ucraina, il finanziamento alle scuole paritarie (cattoliche), ecc.

È finita la pacchia” cit. Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio dei Ministri

L’abolizione del RdC non è l’unico servigio che il governo Meloni offre a Confindustria e associati: di simili regalie è piena la legge di bilancio. Ma è quello su cui la propaganda di regime batte maggiormente: “è finita la pacchia”, “torna di moda la voglia di lavorare”…

Quanto più si fa concreta la necessità di nascondere le reali conseguenze dell’abolizione del RdC, tanto più si alza il volume su queste e altre idiozie. Eliminare quello che per molte famiglie è l’unico limite alla miseria significa dare la stura all’aumento della precarietà e dei ricatti, alla guerra al ribasso fra occupati e disoccupati. E questo non solo a danno di quelli che un lavoro non ce l’hanno, ma anche di chi, per mantenerselo il lavoro, sarà costretto a prostrarsi al padrone più di quanto non sia già obbligato a fare.

I fatti hanno la testa dura

Partiamo dal presupposto che chi legge ha già sufficientemente chiaro che l’abolizione del RdC non comporta nessuna boccata d’ossigeno per i conti dello Stato, mentre, al contrario, produce un aumento dei ricatti, della precarietà e dei disoccupati (che adesso il governo chiama “occupabili”). Chi era senza lavoro, senza lavoro rimarrà. E non certo per sua volontà, perché preferisce cullarsi negli agi a cui danno accesso i 500 euro al mese del RdC…

Il fatto è che il governo che toglie il sussidio ai disoccupati non fa niente per difendere i posti di lavoro esistenti e per crearne di nuovi!

Ecco, appunto: il governo che toglie il sussidio ai disoccupati non fa niente per difendere i posti di lavoro esistenti e per crearne di nuovi.

Soffermiamoci su questo.

Giorgia Meloni dice che il lavoro non si crea per decreto. Mente, sapendo di mentire!

Le leggi sono solo uno dei tanti modi (certamente il più efficace) per difendere i posti di lavoro e crearne di nuovi, per migliorare le condizioni di lavoro, la sicurezza, la salubrità, per eliminare la precarietà e i ricatti. Dipende tutto dalla volontà politica.

A inizio dicembre, il governo ha avviato le procedure per espropriare e porre sotto controllo pubblico la Lukoil, azienda petrolchimica di proprietà russa, a Priolo. Non solo per difendere le migliaia di posti di lavoro, ma per aggirare le sanzioni alla Federazione Russa che rischiano di incidere sull’approvvigionamento di petrolio e derivati (dalla raffineria passa il 20% del fabbisogno nazionale). Capito? Se in ballo ci sono gli interessi dei capitalisti, il governo non ci pensa due volte a espropriare e nazionalizzare!

In passato, anche altri governi della stessa pasta di quello di Giorgia Meloni, governi delle Larghe Intese, non ci hanno pensato due volte a salvare le banche (vedi fra tutte il Monte dei Paschi). Anche in questo caso, poiché c’era la volontà politica, hanno recuperato, in men che non si dica, i miliardi necessari per mettere al riparo le banche e i loro “grandi investitori”. Al contrario, non hanno mosso un dito per salvaguardare le aziende in crisi. Hanno tutelato i conti correnti degli speculatori della finanza anziché i posti di lavoro degli operai.

Del resto, il governo Draghi ha approvato la legge Giorgetti/Orlando chiamata “anti delocalizzazioni”. A dispetto del nome, essa è un regalo ai padroni che delocalizzano (al punto che persino il presidente leghista del Friuli Venezia Giulia, Fedriga, lo scorso settembre, vi si è opposto per bloccare il tentativo di delocalizzazione della Wartsila di Trieste). E sempre Draghi ha lasciato nel cassetto il disegno di legge anti delocalizzazioni scritto e presentato dagli operai della ex Gkn di Firenze nel novembre 2021.

Tiriamo una conclusione

Il governo Meloni inizia lo smantellamento del RdC, ma lo dilaziona: ad agosto 2023 l’erogazione viene sospesa agli “occupabili”, dal 2024 a tutti.

La dilazione è indice delle remore del governo a sfidare le mobilitazioni di piazza: un taglio netto provocherebbe una sollevazione. Ma la dilazione è anche la condizione in cui la mobilitazione – che è già iniziata (vedi articolo a pag. 5) – può crescere, svilupparsi e legarsi saldamente a quelle promosse da altri settori delle masse popolari.

Nonostante il fatto che le organizzazioni sindacali – sia quelle di regime che di base – per il momento non hanno promosso alcuna mobilitazione contro l’abolizione del RdC, il naturale alleato dei percettori del RdC è la classe operaia. E, viceversa, il naturale alleato della classe operaia, tanto nelle mobilitazioni contro le delocalizzazioni (Gkn, Wartsila, Whlirlpool, ecc.) quanto nelle mobilitazioni contro le chiusure “per sopraggiunta crisi” (Sanac, Ansaldo energia di Genova, ecc.), sono i percettori del RdC organizzati e in mobilitazione.

Il perimetro di questa lotta comune non è solo la difesa di un sussidio che oggi è il principale argine alla precarietà e ai ricatti, alla guerra fra poveri; questa lotta va oltre, intacca direttamente gli scranni del governo delle Larghe Intese perché a questo paese, ai lavoratori e alle masse popolari tutte, SERVE un governo che difende i posti di lavoro esistenti e ne crea di nuovi, per legge, per decreto, come priorità!

Un governo simile può essere solo un governo di emergenza delle masse popolari organizzate, sostenuto e orientato esattamente da quegli organismi operai e popolari che oggi sono alla testa della mobilitazione contro le misure del governo Meloni e contro gli effetti della crisi.

Fonte: Partito dei CARC (Comitati di Appoggio per la Resistenza del Comunismo)

Dott. Alessio Brancaccio, Università di L’Aquila