Israele Hamas War

ISRAELE MARTIRIZZA ALTRI QUATTRO PARAMEDICI PALESTINESI E LA LORO AMBULANZA A DEIR AL-BALAH, GAZA CENTRALE

ISRAELI MARTYRS FOUR MORE PALESTINIAN PARAMEDICS AND THEIR AMBULANCE IN DEIR AL-BALAH, CENTRAL GAZA





The names of the four Palestinian paramedics of Palestine Red Crescent Society (PRCS) died today due to an Israeli raid in Salah Addin Street in Deir Al-Balah, January 10th 2024

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università degli Studi di L’Aquila, membro partecipante ordinario Fondazione Michele Scarponi Onlus, ideologo e membro del movimento ambientalista Ultima Generazione appartenente alla Rete Internazionale A22 in contrasto al Cambiamento Climatico in atto

ISRAELE INSISTE: LA GUERRA DURERA’ MESI. GAZA LOTTA PER TROVARE UN PO’ DI CIBO

PALESTINA/ISRAELE. Nazioni unite: metà popolazione denutrita, il 90% mangia meno di una volta al giorno. Si spera nell’apertura del valico di Kerem Shalom ai camion di aiuti, ma le procedure vanno a rilento. A sud combattimenti tra israeliani e Hamas. Hanegbi: gli Stati uniti non ci hanno dato limiti di tempo

In fila per il cibo cucinato da un gruppo di volontari a Khan Yunis – Ap/Mohammed Talatene
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Chiara Cruciati

Al-Mawasi si affaccia sul Mediterraneo, a ovest di Khan Yunis. A sette km in linea d’aria da Rafah, è qui che decine di migliaia di sfollati si sono rifugiati dopo l’inizio dell’offensiva via terra israeliana a sud e l’escalation di quella aerea su Khan Yunis. Israele la ritiene «zona sicura», ma non è che una piccola cittadina, priva di tutto. Gli sfollati montano qualche tenda ma posto non c’è.

«Non ci sono bagni. Non c’è acqua. Le persone si contendono l’acqua. Non è una questione di Hamas o Abu Mazen, di Israele o Egitto. Si tratta dei nostri bambini. Paghiamo il prezzo di qualcosa fatto da altri».

È la testimonianza, affidata ad al Jazeera, di Yaser Abu Asi. Fa l’ingegnere, è arrivato ad al-Mawasi da Khan Yunis. I giornalisti che lo intervistano raccontano di una folla di persone che si accalca intorno alla loro auto: pensavano portasse aiuti umanitari. Non mangiano da due giorni.

LA FAME è ormai insostenibile. Lo dice l’Onu da giorni, lo dicono le altre ong presenti sul campo e prive di aiuti da distribuire. A nord la fame si concentra nei rifugi improvvisati, come l’ospedale al-Awda, circondato da tank e cecchini.

Dentro ci sono ancora 250 persone, tra pazienti e medici. Stanno finendo il cibo e non hanno idea di come procurarselo, con i cecchini che sparano a chi entra o esce. Due giorni fa la Mezzaluna rossa ha interrotto le attività nelle regioni settentrionali di Gaza. In contemporanea l’Onu ha detto di non aver più alcun piano di gestione della crisi a sud.

Ieri alla Reuters Carl Skau, vice direttore esecutivo del World Food Programme, ha annunciato un nuovo procedimento per l’ingresso di camion al valico di Kerem Shalom (Karem Abu Salem), a sud-ovest della Striscia. Si stanno testando le procedure di ispezione dei container in ingresso non più solo dall’Egitto ma anche dalla Giordania. Ma va tutto a rilento, dice Skau. E finché non verrà aperto anche Kerem Shalom, la quantità di aiuti sarà sempre ampiamente insufficiente: metà della popolazione è denutrita, ha aggiunto, e il 90% non mangia ogni giorno.

Alla Bbc ieri il portavoce delle forze armate israeliane, Richard Hecht, ha detto che «ogni morte di un civile è dolorosa, ma non abbiamo alternativa». Secondo Israele, sarebbero 7mila i miliziani di Hamas uccisi dal 7 ottobre.

Hamas da parte sua risponde con messaggi su Telegram in cui rivendica le azioni contro i soldati israeliani: oltre a veicoli distrutti, le Brigate al-Qassam ieri dicevano di aver «preso di mira comandi militari del nemico» nel sud di Gaza con colpi di mortaio. I combattimenti crescono al sud dove Hamas è riuscita a spostare buona parte delle proprie forze, più a dimostrare di esistere ancora. È in tale clima che ieri si sono moltiplicate le reazioni al veto con cui gli Stati uniti hanno bloccato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza che chiedeva il cessate il fuoco immediato.

QUANDO il vice ambasciatore statunitense all’Onu, Robert Wood, ha alzato la mano alla conta dei contrari, nessuno si è sorpreso. Nemmeno alla luce del lunghissimo negoziato che andava avanti da giorni, da quando il segretario generale Guterres aveva attivato, con una mossa storica, l’articolo 99 della Carta dell’Onu.

Su Washington piovono critiche e condanne, accuse di complicità con il massacro in corso a Gaza. Quella risoluzione era stata co-firmata da ben cento paesi, mezzo mondo. La sola speranza – ricordavano ieri svariati analisti – è che l’intervento di Guterres abbia comunque smosso le acque: le pressioni su Tel Aviv sono globali, quelle su Washington pure. Potrebbero accorciare i tempi dell’offensiva, che Israele sperava di trascinare fino a fine gennaio.

Ieri a N12News il capo del consiglio di sicurezza israeliano, Tzachi Hanegbi, ha detto che la guerra proseguirà per mesi e che gli Usa non hanno dato a Tel Aviv una data di scadenza. Ma Netanyahu due mesi non li ha. Di sicuro non li ha la gente di Gaza. Ieri sotto le bombe c’era di nuovo tutta la Striscia, da Deir al-Balah al centro a Khan Yunis a sud. A Deir al-Balah sono stati centrati alcuni edifici residenziali, un’area che sembrava «libera» a guardare le mappe delle forze israeliane.

Le stesse mappe che ieri sono cadute a Gaza city, per dire ai civili di spostarsi a ovest della città, e che sono piovute su Khan Yunis, per dirgli di lasciare i quartieri di Al-Katiba e Al-Mahatta «verso i rifugi conosciuti». Che cambiano di continuo, che vengono comunque colpiti o che sono talmente tanto affollati da non poter accogliere più nessuno.

Fonte: Il Manifesto

Voci da Gaza: «Il sonno dei nostri figli è pieno di incubi»

PALESTINA. Il racconto di una donna palestinese: «Il pane è diventato un lusso. Aspettiamo tra le cinque e le sette ore tra le bombe, il caldo e la sete. Il prezzo di un pezzo di pane, sufficiente per una piccola famiglia, è triplicato»

Sfollati a Khan Yunis – Ap
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Nei primi giorni della guerra, siamo fuggiti sotto l’intenso bombardamento israeliano del nostro quartiere. Abbiamo corso per le strade fino a quando abbiamo raggiunto una scuola Unrwa che ha rifiutato di accoglierci a causa delle migliaia di persone già presenti. Sono rimasta a casa di mia sorella per alcuni giorni, poi abbiamo dovuto spostarci ancora perché eravamo di nuovo in pericolo.

Siamo tornati a Khan Yunis in una scuola Unrwa e abbiamo allestito una tenda all’interno per mio marito e i bambini. Quello che stiamo vivendo è dolore e umiliazione.

Fin dall’inizio della guerra, Gaza soffre per la scarsità d’acqua. La crisi si sta aggravando. Abbiamo atteso più di tre ore per avere 14 litri d’acqua per tutti e sei i membri della famiglia. Quello che mi fa più male è la violazione della dignità dei cittadini. Una bottiglia da 12 litri è venduta a un prezzo elevato per la scarsità d’acqua. Le aree designate per il riempimento sono sporche, ciò che otteniamo è acqua dissalata.

Il pane, l’elemento essenziale della vita, è diventato un lusso. Aspettiamo tra le cinque e le sette ore sotto i bombardamenti, il caldo e la sete. Il corpo è esausto e poi si fallisce nel cercare di ottenere un pezzo di pane. Si riprova il giorno successivo. Il prezzo di un pezzo di pane, sufficiente per una piccola famiglia, è triplicato.

Nei centri per i rifugiati, la situazione è altrettanto disperata. L’igiene è scarsa. Fatichiamo a usare i bagni pubblici. Lavare i vestiti è un compito arduo in mezzo alla pressione della popolazione e alla scarsità d’acqua. Le notti fredde non hanno avuto pietà, avvolgendo i bambini in un abbraccio gelido, causando tosse e raffreddori, mentre le infezioni giocavano un crudele «ce l’hai» tra gli abitanti.

Preparare il cibo è un’impresa impossibile. Non c’è gas per cucinare, e prepariamo il cibo in modo intermittente nel tentativo di placare la fame dei nostri figli. Le notti dei bambini sono state agitate; urlano sempre e il loro sonno è irregolare tra i continui bombardamenti. Il loro sonno è pieno di incubi ricorrenti.

Prima della guerra, mia figlia ha avuto un incidente domestico che le ha causato gravi ustioni. Eravamo nelle fasi avanzate del trattamento, ma da quando è iniziata la guerra, non ha ricevuto il trattamento necessario e la sua condizione sta peggiorando. Gli ospedali si stanno concentrando sui feriti e c’è carenza di medicinali. Immagina quante persone in situazioni simili sono a rischio.

Testimonianza raccolta dall’ong italiana WeWorld

Fonte: Il Manifesto

Voci dalla Striscia. Prigionieri «senza luce, acqua, rifugi antiaerei»

GAZA. Fuga impossibile. Parla Mohammed Agl, segretario di una clinica medica a Jabaliya

Gaza sotto le bombe 
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Lidia Ginestra Giuffrida

«La situazione è tremenda. Non abbiamo né luce né acqua. Anche quella potabile manca perché gli impianti di desalinizzazione non funzionano senza l’elettricità», racconta Mohammed Agl segretario di una clinica medica nel campo profughi di Jabaliya, a nord di Gaza. «Oggi solo nei primi venti minuti di bombardamenti sono morte dieci persone, tutte civili. Hanno bombardato le case, qui nel campo hanno bombardato anche una moschea. La gente ha provato a scappare a casa dei fratelli o dei cugini. Molti si sono rifugiati nelle scuole perché pensavano che fossero più sicure, ma oggi ne hanno bombardata una. Hanno bombardato persino un’ambulanza con dentro feriti civili”, continua mentre prova a calmare i suoi cinque figli, terrorizzati dal rumore delle bombe. «Il più grande dei miei figli ha sette anni, poi ho due gemelle di tre anni e una figlia di sei che è malata di epilessia. Si è ammalata tre anni fa, da allora devo darle delle medicine tutti i giorni. Adesso, però, ho paura che finiscano».

DA DOMENICA, infatti, Israele ha dichiarato «l’assedio totale di Gaza» staccando l’energia elettrica e, da ieri mattina, bloccando i rifornimenti di merci, acqua, cibo e carburante. Una tattica usata spesso per piegare la striscia che dal 2007, in seguito alla vittoria di Hamas alle elezioni legislative del 2006, vive sotto embargo terrestre, aereo e marittimo. «Ho ordinato il completo assedio: non ci sarà elettricità, né cibo, né benzina. Tutto è chiuso», ha dichiarato il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant. Nelle ultime trentasei ore Gaza ha avuto solo un’ora e mezza di luce, l’acqua è arrivata alle tre del mattino di ieri per quaranta minuti, prima di cessare definitivamente. Nella Striscia non ci sono rifugi aerei, né nelle città né nei campi profughi, la gente si rifugia in casa, impossibilitata ad andare altrove. Spostarsi all’interno di Gaza è sempre più difficile, non solo per una questione di sicurezza ma anche perché manca il carburante per le automobili. Ad avere difficoltà non sono solo i mezzi civili ma anche le ambulanze. Alcune donne incinte ieri sono state costrette a partorire in casa nel campo di Jabaliya perché non potevano spostarsi né in auto private né in ambulanza.

«QUANDO HANNO iniziato a bombardare – racconta Mohamed Agl – noi ci siamo chiusi a casa. Un mio amico, Abu Hassan, insegnante e padre di cinque figli, era andato a fare la spesa vicino casa mia. Non è più tornato. Siamo usciti a cercarlo in mezzo alle macerie ma poi hanno ricominciato a bombardare. Ieri hanno bombardato anche la casa dei miei vicini, sono morti tutti, i nonni, i genitori e i figli, l’unica superstite è una bambina di otto anni. Qui se esci forse resti vivo perché bombarderanno la tua casa, o forse muori perché bombarderanno fuori. Nessun posto è sicuro». Oltre elettricità, acqua, cibo e carburante a Gaza sono sempre meno anche le medicine. Nelle prossime ore potrebbe essere interrotta anche la connessione telefonica.

Fonte: Il Manifesto

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università degli Studi di L’Aquila, membro partecipante ordinario Fondazione Michele Scarponi Onlus, ideologo e membro del movimento ambientalista Ultima Generazione appartenente alla Rete Internazionale A22 in contrasto del Cambiamento Climatico in atto