Wildlife on Planet Earth

STIAMO ELIMINANDO INTERI RAMI DELL’ALBERO DELLA VITA, AD UN RITMO MAI VISTO IN PRECEDENZA

di Simone Valesini

Un esemplare di baiji, o delfino dello Yangtze (Lipotes vexillifer) 
https://www.repubblica.it/green-and-blue/2023/09/21/news/estinzione_specie_animali_a_un_ritmo_mai_visto_in_precedenza-415061746/

In 500 anni abbiamo portato all’estinzione un numero di generi animali che avrebbe impiegato 18mila anni a sparire per cause naturali

21 SETTEMBRE 2023 ALLE 05:00

Le estinzioni avvengono più o meno da quando esiste la vita sul nostro pianeta. Ma la nostra specie sta facendo di tutto per renderle più comuni, e drammatiche, di quanto non sia mai stato in passato. La velocità con cui si estinguono le specie animali da quanto l’Homo sapiens è entrato in scena sta portando infatti alla sparizione di interi generi di creature viventi con una velocità 35 volte superiore a quella registrata in media nell’ultimo milione di anni. E il risultato, stando a uno studio appena pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences da un team di ricercatori americani e messicani, è un’impressionante “mutilazione dell’albero della vita”, da cui la biodiversità del nostro pianeta rischia di impiegare milioni di anni per riprendersi.

Fino ad oggi, l’attenzione della comunità scientifica si era concentrata fondamentalmente sul monitoraggio dello stato di conservazione delle specie. Ma la tassonomia del mondo animale è più complessa di così. E se ogni estinzione è un evento drammatico per la conservazione della biodiversità del nostro pianeta, alcune lo sono forse più di altre. Prendiamo alcune delle più recenti vittime dell’attività umana: i piccioni migratori (Ectopistes migratorius), le tigri della Tasmania (Thylacinus cynocephalus) e i baiji, o delfini dello Yangtze (Lipotes vexillifer). Tutte specie estinte (o quasi, nel caso dei delfini di acqua dolce cinesi), che erano anche l’unica specie conosciuta all’interno del proprio genere, cioè di quel raggruppamento tassonomico che contiene le specie strettamente imparentate tra loro, ma abbastanza diverse da non potersi più riprodurre tra loro dando origine a prole fertile (almeno nella maggioranza dei casi).

La cosa è rilevante, perché – come fanno notare gli autori del nuovo studio – la scomparsa di una specie può essere rimpiazzata con relativa facilità dall’evoluzione, visto che le specie appartenenti allo stesso genere sono estremamente simili sul profilo genetico, e possono facilmente riempire la nicchia ecologica lasciata vacante, mantenendo un potenziale evolutivo più o meno identico a quello della specie estinta.

Quando è un genere intero a sparire – o ancora peggio, intere famiglie o ordini di esseri viventi – servono invece milioni di anni perché l’evoluzione plasmi un sostituto funzionalmente paragonabile, e il potenziale evolutivo che racchiudeva in sé è perso per sempre. La perdita in termini di biodiversità che avviene quando è un intero ramo dell’albero della vita a sparire, quindi, è ben più drammatica, e impiega molto più tempo per essere compensata dall’evoluzione.

Sollevando lo sguardo dalle singole specie, il nuovo studio ha indagato lo stato di salute dell’albero della vita guardando ai suoi rami, generi, famiglie e così via, trovando purtroppo una situazione desolante. Negli ultimi 500 anni, infatti, all’interno dei tetrapodi (cioè della superclasse di cui fanno parte mammiferi, uccelli, rettili e anfibi) sono andati estinti due ordini, 10 famiglie, e 73 generi di essere viventi. Basandosi sui tassi storici di estinzione dei generi nei mammiferi, i tassi degli ultimi 500 anni sono 35 volte superiori a quelli visti nell’ultimo milione di anni. In cinque secoli, l’uomo ha fatto quello che catastrofi e altri fenomeni naturali impiegano più di 18mila anni a fare. Una situazione per la quale gli autori della ricerca ritengono riduttivo utilizzare il termine “estinzione di massa”, e che preferiscono definire un autentico “annientamento biologico”.

“In qualità di scienziati, dobbiamo cercare di essere cauti ed evitare gli allarmismi”, commenta Gerardo Ceballos, dell’Istituto di Ecologia dell’Università nazionale autonoma del Messico. “Ma la gravità dei nostri risultati in questo caso ci obbliga ad usare un linguaggio più forse del solito: sarebbe poco etico non spiegare la magnitudine del problema, visto che sia noi che gli altri scienziati siamo molto preoccupati”.

Che fare dunque? Da un lato, bisognerebbe concentrare gli sforzi di conservazione dove hanno più probabilità di fare la differenza: quindi ai tropici, dove si concentrano la maggior quantità di generi andati estinti, e di animali che rappresentano l’ultima specie vivente all’interno del proprio genere. Dall’altro – come nel caso dei cambiamenti climatici – il problema andrebbe risolto modificando radicalmente le nostre società e il nostro stile di vita e di crescita. “La dimensione e la crescita costante della popolazione umana, la scala in continuo aumento dei suoi consumi, e il fatto che vi siano enormi disuguaglianze in questi consumi, sono tutti parte integrante del problema”, scrivono gli autori dello studio. “L’idea che si possa continuare in questo modo, e salvare al contempo la biodiversità, è priva di senso”.

Fonte: Repubblica

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Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università di L’Aquila, membro partecipante ordinario Fondazione Michele Scarponi Onlus, ideologo ed attivista del movimento ambientalista italiano Ultima Generazione A22 Network