L’Indipendente Online

LA VERITA’ DI MAURIZIO BELPIETRO FA “INFORMAZIONE” SUL CLIMA CON I SOLDI DELL’ENI

3 Agosto 2023 17:43

https://www.lindipendente.online/2023/08/03/la-verita-fa-informazione-sul-clima-con-i-soldi-delleni/

Lunedì 30 luglio il quotidiano La Verità ha pubblicato una lunga intervista sul cambiamento climatico a tal Luigi Mariani, di professione agronomo. L’agronomia è la scienza che studia l’agricoltura, e un suo specialista sta alla questione climatica come un alpinista alla vulcanologia o, se preferite, come i cavoli alla merenda. Ad ogni modo Mariani si è premurato di farci sapere che legge molto e che secondo lui quello della crisi climatica è un allarme ingiustificato, prima di lanciarsi in sentenze del tipo: sarà anche vero che se la concentrazione di CO2 raddoppia si avrà una temperatura più alta da 1 a 3 gradi centigradi, ma in compenso anche «la produzione dei pomodori in serra raddoppierà» e aumenterà anche «la bellezza e la varietà della vegetazione». Permettere all’industria di continuare con le emissioni, insomma, non solo non sarebbe un problema, ma un vero e proprio affare. Caso vuole che, poche pagine oltre l’intervista a Luigi Mariani, il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro ospitava la pubblicità a tutta pagina di quello che è considerato proprio il più grande emettitore italiano di gas serra, ovvero la multinazionale petrolifera ENI.

La Verità del 31 luglio: a pagina 6 l’intervista a Luigi Mariani, a pagina 12 la pubblicità dell’ENI

Due giorni dopo invece, il 2 agosto, La Verità ha deciso di appaltare un’intera pagina direttamente alle ragioni dell’industria del petrolio, intervistando sul cambiamento climatico Andy May, di professione petrofisico. Dal suo curriculum vitae, disponibile in rete, apprendiamo che, dal lontano 1974 e fino alla pensione, May ha sempre lavorato per l’industria del gas e del petrolio, occupandosi anche di estrazione con la tecnica della fratturazione idraulica: una procedura devastante per l’ambiente e talmente pericolosa che l’Olanda l’ha vietata perché fortemente sospettata di causare terremoti. Tra gli ex datori di lavoro di May figura la Exxon Mobil, multinazionale petrolifera americana che è il quarto emettitore di CO2 a livello globale e che – come provato da una recente inchiesta – conosceva gli effetti (definiti in un documento interno “potenzialmente catastrofici”) delle emissioni di CO2 sul clima dagli anni ’70, ma li ha tenuti nascosti. Non sorprenderà sapere che – nell’intervista rilasciata a La Verità – Andy May ha negato con granitica convinzione che esistano prove del fatto che l’industria che gli ha dato da mangiare per tutta la vita abbia una qualche responsabilità nel cambiamento climatico in atto.

Spesso si ritiene che la vulgata giornalistica che nega il problema del cambiamento climatico sia l’esatto contrario della corrente mainstream, rappresentata da giornali come La Repubblica o il Corriere della SeraEntrambe le narrazioni sono invece perfettamente accettabili dalle multinazionali fossili, che infatti continuano a sovvenzionare tutti e due i fronti della finta barricata con importanti sponsorizzazioni.

Se quotidiani come La Verità negano il problema, le altre lo ammettono (ed anzi portano avanti una intensa campagna), ma scelgono di non mettere mai nel mirino quelli che sono i reali colpevoli dell’aumento delle emissioni: ovvero le industrie fossili e quelle degli allevamenti intensivi. Quante volte avrete letto sui principali media che il cambiamento climatico è antropico, ovvero che avviene “a causa dell’uomo”? È una definizione che non significa niente. Dare la colpa genericamente agli uomini significa mettere sullo stesso piano i manager delle multinazionali fossili e i megaricchi che si muovono in jet privato con i lavoratori che non hanno i soldi per una nuova auto elettrica e con i popoli del Sud del mondo o indigeni che questa situazione, da sempre, la subiscono e basta. In fondo, dare la colpa a tutti significa non darla a nessuno: una narrazione perfettamente utile a quei potentati economico-industriali che da decenni emettono gas serra e altre sostanze nocive impunemente.

Noi de L’Indipendente sulla questione climatica continueremo invece a fare informazione senza padroni. Sulle nostre colonne non troverete mai la pubblicità dell’ENI, nè – d’altra parte – la troverete nemmeno di industrie dell’energia elettrica né di qualsiasi altro settore. Dal primo giorno rifiutiamo rigorosamente ogni tipo di pubblicità perché questa è, secondo noi, la precondizione necessaria per fare realmente un’informazione che renda giustizia al nome che abbiamo scelto per il nostro giornale. Sulla crisi climatica, come su ogni altra questione, abbiamo un approccio non ideologico ma dato dall’analisi dei dati. Seguendo questa prospettiva abbiamo pubblicato decine di articoli, focus e inchieste sul tema, utili ad approfondirlo e completi di link alle fonti utilizzate. Ci muoviamo come sempre con il beneficio del dubbio e verifichiamo le fonti, che non si trovano nelle opinioni – spesso contrastanti – di quello e quell’altro presunto esperto, ma nei fatti, nei dati e nelle ricerche scientifiche.

[di Andrea Legni – direttore de L’Indipendente]

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università degli Studi di L’Aquila, ideologo e consulente tecnico movimento ambientalista Ultima Generazione A22 Network e membro attivo della Fondazione Michele Scarponi Onlus

USA E UE SI SONO ACCORDATE PER LO SCAMBIO DEI NOSTRI DATI PERSONALI

https://www.lindipendente.online/2023/07/11/usa-e-ue-si-sono-accordate-sullo-scambio-dei-nostri-dati-personali/

Il trasferimento transfrontaliero dei dati tra Unione Europea e Stati Uniti si è dimostrato negli anni estremamente spinoso e controverso. Big Tech e Governo a stelle e strisce non hanno garantito le tutele previste dalle norme UE, tuttavia le necessità economiche internazionali hanno spinto i legislatori ad adottarenei confronti di Washington un approccio soft, spesso incappando nelle ire della Corte di giustizia europea. Lunedì 10 luglio le autorità hanno però trionfalmente annunciato di aver trovato un accordo che dovrebbe sistemare le cose, un patto noto come Data privacy framework che i legislatori hanno considerato tanto solido da decidere di adottarlo immediatamente.

La Commissione europea canta vittoria e abbraccia l’accordo promettendo che, finalmente, questi “assicuri un adeguato livello di protezione – comparabile a quello dell’Unione europea – al trasferimento dei dati personali dall’UE alle aziende statunitensi”. Non si fa necessariamente riferimento alle tutele garantite dal GDPR, le quali vengono occasionalmente violate anche in Europa, quanto alla possibilità che i dettagli dei cittadini UE possano essere visionati liberamente dalle Intelligence americane, un punto di controversia che a sua volta ha messo in difficoltà l’operatività delle attività commerciali.

Il Data privacy framework, sostiene Bruxelles, limita le possibilità di spionaggio statunitensi a ciò che è “necessario e proporzionato”, un senso della misura che dovrà essere supervisionato dalla neonata entità indipendente nota come Corte di riesame sulla protezione dei dati (DPRC), la quale sarà interpellabile da qualsiasi cittadino UE che volesse far valere i propri diritti. A partire da martedì 11 luglio le aziende possono dunque firmare il patto e adeguarsi alle sue indicazioni, salvaguardandosi dalla necessità di introdurre ulteriori garanzie per la protezione dei dati.

Il nuovo patto sostituisce a distanza di tre anni il Privacy Shield, ritenuto illegittimo dalla Corte, il quale era subentrato nel 2016 al Safe Harbour, considerato a sua volta inadeguato. La storica incapacità dei legislatori europei di anteporre i diritti dei cittadini agli interessi economici e di sorveglianza non può che destare cautela, ancor più se si considera che alcune fonti giornalistiche hanno riportato che Washington abbia sfruttato la guerra in Ucraina per fare pressioni sull’UE anche per quanto riguarda l’accessibilità dei dati. Gli attivisti specializzati nel combattere gli abusi digitali stanno peraltro già lanciando un grido di allarme, suggerendo che anche il Data privacy framework possa nei prossimi anni incappare nell’inglorioso epilogo dei suoi predecessori.

Secondo noyb, no-profit fondata dall’uomo che ha più contribuito a smantellare i precedenti accordi commerciali, Max Schrems, il nuovo inquadramento amministrativo non è che una variante di ciò che era il Privacy Shield. «Dicono che la definizione di pazzia sia il compiere le stesse azioni più e più volte aspettandosi ogni volta un risultato differente», lamenta Schrems. «L’ultimo accordo non si basa su modifiche concrete, ma su interessi politici. Ancora una volta, la Commissione in carica sembra pensare che il casino che ne verrà fuori sarà un problema del prossimo esecutivo».

L’accusa mossa dall’attivista fa riferimento al fatto che, tenendo conto dei tempi amministrativi, la Corte di giustizia difficilmente avrà modo di esprimere un giudizio in merito prima del 2025. Il tribunale potrebbe esercitare il diritto di sospensione del Data privacy framework nell’attesa che non venga elaborata una decisione definitiva, tuttavia adottare una simile opzione rappresenterebbe una sfida aperta alla sfera politica e finirebbe con l’influenzare il mondo finanziario Intraprendere un simile percorso, insomma, sarebbe alquanto complicato. Dal canto suo, la Commissione ha annunciato l’intenzione di voler valutare periodicamente la bontà del patto, con la prima revisione che è prevista per il luglio del 2024.

[di Walter Ferri]

Fonte: L’Indipendente Online

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università degli Studi di L’Aquila, ideologo e consulente tecnico movimento ambientalista Ultima Generazione A22 Network e membro attivo della Fondazione Michele Scarponi Onlus

L’ISTAT FOTOGRAFA UN’ITALIA SEMPRE PIU’ VECCHIA ED IMPOVERITA

https://www.lindipendente.online/2023/07/10/listat-fotografa-unitalia-sempre-piu-vecchia-e-impoverita/

L’Italia non è un Paese per giovani e donne, soprattutto se meridionali. Non il titolo di un film ma lo scenario desolante che ha immortalato l’ISTAT nel “Rapporto annuale 2023. La situazione del Paese”. Un Paese che invecchia sempre di più, vede emigrare i propri giovani e non tutela quelli che restano. Quasi la metà dei 18-34enni (10 milioni e 273 mila persone) mostra almeno un “segnale di deprivazione” in uno dei domini chiave del benessere: istruzione e lavoro, coesione sociale, salute, benessere soggettivo e territorio. In Italia 1,7 milioni di giovani non studiano, non lavorano e non sono inseriti in percorsi di formazione: si tratta di circa un under 30 su cinque. In questa triste classifica le ragazze staccano i ragazzi di quasi 3 punti percentuali (20,5% e 17,7%). Anche quando riescono a trovare lavoro, i giovani devono fare i conti con precarietà e stipendi da fame.

Tra il 2004 e il 2022, il tasso di occupazione per i giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni si è ridotto di 8,6 punti percentuali, mentre per i 50-64 enni è aumentato del 19,2%. Il divario occupazionale tra due generazioni agli antipodi, una avviatasi verso la pensione e l’altra agli inizi della carriera lavorativa, è oggi ampissimo. Nel caso degli under 35, il tasso di occupazione si ferma al 43,7%, mentre nella fascia 50-64 anni la percentuale sale al 61,5%. Una differenza del 17,8%, figlia di politiche e di una cultura restie alla valorizzazione dei giovani. Sul coinvolgimento attivo delle nuove generazioni ha più volte scritto lo psicanalista Umberto Galimberti: «Noi i giovani non li usiamo… gli facciamo fare le fotocopie, i lavori a Cococo, i lavori a progetto, i lavori in affitto… ma il massimo della potenza creativa, il momento intuitivo, è in quell’età lì».

Non è un caso che i segnali di deprivazione si manifestino in modo più intenso nella fascia di età 25-34 anni. Un periodo che apre a passaggi impegnativi, come l’ingresso nel mondo del lavoro, l’uscita dalla famiglia e l’inizio di una vita autonoma. Percorsi non sempre possibili a causa della precarietà del mondo del lavoro. Come evidenziato dall’ISTAT, la situazione non è delle migliori nemmeno in caso di occupazione: la retribuzione media annua lorda per dipendente è di quasi 27 mila euro, inferiore del 12% alla media europea. Tuttavia, un giovane guadagna di solito la metà di un collega adulto: come evidenziato da uno studio del Consiglio nazionale dei giovani e di EURES, il 43% degli under 35 percepisce una retribuzione netta mensile inferiore a 1000 euro.

Tra il 2000 e il 2021, tutte le regioni italiane hanno perso posizioni nella classifica europea del PIL pro capite PPA (a parità di potere d’acquisto). Si tratta di un fallimento anomalo delle politiche di coesione messe in campo da Bruxelles. I 21 anni analizzati hanno infatti visto una generale convergenza tra le economie e i tenori di vita dei diversi territori dell’UE. Fanno eccezione la Grecia, il Portogallo, la Spagna e l’Italia, con particolare riguardo per il Mezzogiorno. Alle regioni meno sviluppate (Basilicata, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia) sono andati nello scorso bilancio UE (2014-2020) il 69% delle risorse stanziate per le politiche di coesione. Nonostante ciò, le regioni hanno continuato la loro regressione: la Calabria è passata dal 182esimo al 214esimo posto, la Sicilia dal 173esima al 208esimo, la Campania dal 165esimo al 201esimo. Una situazione favorita dalla mancanza di politiche incisive e di una gestione virtuosa da parte dello Stato e degli enti minori italiani.

[di Salvatore Toscano]

Fonte: L’Indipendente Online

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università degli Studi di L’Aquila, ideologo e consulente tecnico movimento ambientalista Ultima Generazione A22 Network e membro attivo della Fondazione Michele Scarponi Onlus

IL MOVIMENTO NO TAV SCENDE IN PIAZZA A VICENZA: LA POLIZIA CARICA CON GLI IDRANTI

https://www.lindipendente.online/2023/07/10/il-movimento-no-tav-scende-in-piazza-a-vicenza-la-polizia-carica-con-gli-idranti/

In centinaia sono scesi in strada a Vicenza per protestare contro la costruzione della linea ferroviaria ad Alta velocità (TAV). Il corteo, organizzato dal movimento NO TAV, da Fridays for Future Vicenza e dai centri socialiha bloccato il Ponte Alto, una delle arterie principali della città. Il coinvolgimento di Vicenza nel tratto Milano-Venezia del TAV è già realtà, con i lavori iniziati nel primo lotto costruttivo. I manifestanti hanno dichiarato che l’iniziativa intende «dare un assaggio» di ciò che succederà se il progetto giungerà al secondo lotto costruttivo (l’attraversamento di Vicenza): blocchi diffusi e danni ambientali. Il Ponte Alto è stato poi sgomberato dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa con l’utilizzo ripetuto dell’idrante.

«Questa città sconta già tanti problemi, i PFAS, le polveri sottili: non può accettare 15 anni di cantiere. Siamo stanchi di vedere la nostra città svilita per interessi di altri. Dobbiamo essere noi come cittadini e cittadine ad alzare la testa a resistere: il TAV lo possono fermare solo le comunità che si ribellano», hanno dichiarato i manifestanti. Una volta sgomberato il Ponte Alto, gli attivisti hanno raggiunto il presidio sottostante, continuando l’attività di protesta. Qui hanno spiegato l’iniziativa ai «cittadini e le cittadine che si sono dimostrati solidali, agitando le mani e suonano il clacson». La popolazione di Vicenza «sa che quest’opera sarà devastante e cambierà la fisionomia della città», hanno infine aggiunto i promotori.

Il Progetto Av/Ac Verona-Padova 2° lotto “Attraversamento di Vicenza” prevede il raddoppio dei binari sulla linea Milano-Venezia, inclusi i tratti che attraversano il centro abitato della cittadina veneta. Per la realizzazione del piano per l’alta velocità sono previste diverse demolizioni abitative, soprattutto nei quartieri di San Lazzaro, San Felice e Ferrovieri, tra i più popolosi di Vicenza. Interi condomini da abbattere, per un totale di circa 62.316 metri quadri di superficie, e decine di famiglie che dovranno abbandonare le proprie case dietro indennizzo. L’opera andrà a modificare 6,2 chilometri di tratto con annessi interventi all’intera viabilità nella parte ovest della città, fino alla stazione ferroviaria nel centro storico. Gli abitanti contrari al TAV hanno accusato l’amministrazione di non aver considerato, oltre all’opinione dei cittadini, l’impatto ambientale dell’opera e le ripercussioni su coloro che vivono nell’area interessata. In questo contesto s’inserisce la protesta degli attivisti che lo scorso ottobre hanno fatto irruzione, in modo del tutto pacifico, nella sede del comune vicentino. Un’azione che è costata 17 denunce per occupazione abusiva di edificio pubblico.

[di Salvatore Toscano]

Fonte: L’Indipendente Online

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università degli Studi di L’Aquila, ideologo e consulente tecnico movimento ambientalista Ultima Generazione A22 Network e membro attivo della Fondazione Michele Scarponi Onlus

BRASILE, MISTERIOSO DISASTRO AMBIENTALE: UN INTERO FIUME RICOPERTO DA SCHIUMA TOSSICA

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In Brasile, il fiume Tietê è da alcuni giorni interamente ricoperto da una schiuma tossica e dannosa per l’ecosistema. Le autorità locali, recatesi immediatamente sul posto, hanno riferito che il corso d’acqua, che attraversa lo Stato di San Paolo da sud-est verso nord-ovest, potrebbe essere stato contaminato da residui chimici o rifiuti legati alla produzione di detersivi non trattati correttamente. L’evento potrebbe essere presto classificato come uno dei peggiori disastri ambientali della storia del Paese.

Il segretario per l’ambiente di Salto, Flávio Roberto Garcia, ha affermato che il problema è il riflesso della mancanza di trattamento delle acque reflue nell’area della Grande San Paolo. «Questo inquinamento proviene dalle città della regione metropolitana», ha dichiarato. Secondo Malu Ribeiro, portavoce della Ong Mata Atlantica che sta seguendo il caso, la schiuma tossica – che emana un odore nauseabondo – sarebbe imputabile ad una azienda energetica che controlla le dighe nella parte più alta del fiume e che, in seguito alle forti piogge che hanno colpito l’area nell’ultimo periodo, ha aperto i sistemi di sbarramento idraulico posti sul corso d’acqua. L’azienda, infatti, non avrebbe considerato l’accumulo di sedimenti contaminati sul fondo delle paratoie della diga. In questo modo, tonnellate di sostanze chimiche accumulatesi nei mesi sarebbero state liberate dall’improvviso rilascio d’acqua, creando così la schiuma bianca tossica, che ha peraltro già provocato la morte di migliaia di pesci.

Gli abitanti di diverse zone dell’area metropolitana di San Paolo toccate dalle acque del fiume, la cui sorgente si trova nella città di Salesópolis, sono ora in emergenza. «Questa schiuma sta reagendo a una grande quantità di fosfato e c’è il rischio di inalare un odore simile a quello delle uova marce o dei liquami – ha spiegato ancora Malu Ribeiro -. Si tratta di idrogeno solforato. Nella schiuma c’è idrogeno solforato gassoso, dove possiamo trovare vari batteri, vari agenti nocivi per la salute, sia per l’ambiente che per le persone».

Il fiume Tietê è noto per essere uno dei corsi d’acqua più inquinati del territorio brasiliano. I dati del rapporto “Observing the Tietê”, pubblicato dalla Fondazione SOS Mata Atlântica, mostrano che la macchia di inquinamento del fiume è cresciuta di oltre il 40% tra il 2021 e il 2022 nel tratto monitorato dall’organizzazione, raggiungendo rispettivamente l’anno scorso i 122 chilometri di estensione. Proprio nel marzo di quest’anno, il governatore di San Paolo Tarcísio de Freitas, membro del Partito Repubblicano, aveva lanciato il piano “Integra Tietê” con l’obiettivo di recuperare il fiume, prevedendo un investimento di 5,6 miliardi di BRL in opere di dissabbiatura, trattamento delle acque reflue e monitoraggio delle acque.

[Stefano Baudino]

Fonte: L’Indipendente Online

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università degli Studi di L’Aquila, ideologo e consulente tecnico movimento ambientalista Ultima Generazione A22 Network e membro attivo della Fondazione Michele Scarponi Onlus

IL PETROLIO E LA PLASTICA CONTINUANO AD ASSEDIARE IL MARE MEDITERRANEO

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Nonostante i sempre più ambiziosi impegni internazionali, il Mediterraneo è ancora uno dei mari più inquinati al mondo. Complici la dilagante antropizzazione delle coste del bacino e la posizione strategica, il Mare Nostrum è quindi oggi uno dei luoghi in cui la biodiversità marina è in assoluto più minacciata. Stiamo parlando di una ricca varietà di specie, uomo compreso, costantemente sotto pressione a causa delle impattanti attività richieste dall’odierno modello socioeconomico. Al riguardo, come non menzionare la ormai ubiquitaria plastica, i cui costituenti sintetici allo stato attuale sono praticamente in ogni rete alimentare nota. Oppure i combustibili fossili e i loro continui sversamenti che, ogni giorno che passa, rendono il Mediterraneo un mare sempre meno in salute: basta infatti un singolo litro di petrolio per inquinare un milione di litri di acqua.

Le perdite accidentali di idrocarburi nel Mar Mediterraneo sono tra l’altro più frequenti di quel che si pensi. In un solo anno, sono circa 200 mila le imbarcazioni di ogni tipologia che solcano il nostro mare e circa trecento le navi cisterna che trasportano giornalmente combustibili fossili. Un quantitativo totale di idrocarburi stimato dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale in 350 milioni di tonnellate all’anno, di cui almeno 600 mila tonnellate finiscono però in mare. Basti pensare che, negli ultimi tre decenni, 27 incidenti hanno riversato nelle acque circa 272 mila tonnellate di greggio. Tuttavia, il problema è che «a parte gli episodi catastrofici – ha spiegato il biologo marino Emilio Mancuso impegnato proprio nella tutela del Mediterraneo – ci sono pressoché quotidianamente delle piccole perdite di idrocarburi in mare legate allo svuotamento delle acque di sentina e alle operazioni di rifornimento delle imbarcazioni da diporto». Senza contare poi il rilascio, accidentale o volontario che sia, di gasolio, solventi, lubrificanti e altri prodotti petroliferi.

Allo stesso modo, il Mar Mediterraneo è uno dei luoghi del Pianeta dove l’impatto dei rifiuti in plastica sulla biodiversità è più alto in assoluto. A dimostrarlo un recente studio che ha monitorato gli spostamenti di 7.137 uccelli appartenenti a 77 specie diverse e analizzato come questi si sovrapponessero alle mappe della prevalenza della plastica negli oceani del mondo. I ricercatori hanno affermato che è la prima volta che i dati di tracciamento di così tante specie vengono combinati con i dati sulla distribuzione della plastica su scala globale. Una valutazione imponente che ha rivelato quanto il Mar Mediterraneo insieme al Mar Nero siano “zone a rischio” particolari: insieme rappresentano infatti oltre la metà del rischio di esposizione alla plastica per l’avifauna considerata. La portata del problema è tuttavia globale, basti pensare che tra le aree ad alto rischio figurano anche le acque circostanti gli Stati Uniti, il Giappone, il Regno Unito e persino diverse remote porzioni di oceano. Nel complesso, dalla ricerca emerge un’ulteriore conferma dei pericoli della plastica per gli uccelli marini e la biodiversità in generale. Gli animali, infatti, spesso scambiano piccoli frammenti di plastica per cibo, possono rimanere impigliati nei rifiuti o ingeriscono i polimeri plastici già mangiati dalle loro prede. In definitiva – ha sottolineato una delle autrici dello studio – sebbene ci manchi ancora una comprensione completa dell’impatto della plastica sulle specie e sugli ecosistemi, quel che sappiamo è profondamente preoccupante».

[di Simone Valeri]

Dott. Alessio Brancaccio, tecnico ambientale Università degli Studi di L’Aquila, ideologo e consulente tecnico movimento ambientalista Ultima Generazione A22 Network e membro attivo della Fondazione Michele Scarponi Onlus